Migranti, tensione e proteste
«Non lasceremo la stazione»

Solo novanta ospiti al centro di accoglienza: decine di etiopi di etnia “oromo” rifiutano di abbandonare il parco. Vietata la distribuzione del cibo al di fuori dei canali istituzionali: «Ma noi resisteremo»

«Abbiamo già visto troppi campi... Ci dispiace ma noi da qui non ce ne andremo». Al termine di una giornata partita con tutt’altri auspici, i numeri dicono che soltanto 90 dei circa 400 stranieri accampati tra i giardini e la stazione hanno accettato di trasferirsi nel nuovo campo aperto in fondo a via Regina Teodolinda. Gli altri, quasi tutti etiopi di etnia “oromo”, hanno rifiutato di lasciare le loro tende, inscenando in mattinata un sit-in di protesta assieme ai cosiddetti “no-borders”, protagonisti anche di qualche acceso scambio di opinione con i responsabili e i volontari che tentavano di convincerli (il direttore della Caritas diocesana Roberto Bernasconi è stato anche accusato, al pari dei fotografi, dei giornalisti e dei poliziotti presenti, di «campare» sulle spalle di queste centinaia di stranieri).

Non è servito sospendere la distribuzione dei pasti a “domicilio”, spiegando che i sacchetti con la colazione sarebbero stati consegnati soltanto al campo, che dai giardini dista circa un chilometro a piedi. Gli “oromo” non hanno cambiato opinione. Anzi: una ventina di loro ha anche alzato la voce scagliandosi contro due mediatori culturali nigeriani colpevoli, attorno alle 13, di essere entrati nel campo in mezzo alle tende, per chiamare a raccolta quanti - tra donne e minori - avessero voluto seguirli per pranzare. È stato l’unico momento in cui, tra le urla e le imprecazioni degli etiopi decisi a cacciare gli intrusi, si è avuta l’impressione che, rimaste tutto il giorno a distanza per non alimentare tensioni, anche le forze dell’ordine stessero per intervenire. Non è successo nulla, per fortuna, ma è difficile prevedere cosa accadrà se i profughi non si convinceranno.

Quali sono le ragioni del mancato trasferimento? Grazie al contributo della mediatrice e traduttrice Samia Kebirè, tre di loro - Muhamed, Ali e Yusuf - hanno potuto spiegarlo, raccontando, nel pomeriggio, le loro impressioni direttamente sul campo: «Quando siamo andati via dal nostro Paese - hanno detto -, il nostro obiettivo era quello di proseguire e andare oltre, senz’altro non quello di essere spostati da un campo all’altro. Abbiamo smesso di studiare, abbiamo rinunciato alla nostra vita, lasciato le nostre attività commerciali per avere un futuro. Siamo molto compatti: se la maggioranza di noi decide di non andare al centro, nessuno ci andrà». Tra le loro preoccupazioni c’è quella di restare in qualche modo “incagliati”: «Staremo finché serve, resisteremo finché non riusciremo a passare il confine. Tra l’altro, in frontiera fanno passare solo gli eritrei, mentre noi veniamo regolarmente respinti». Tornano anche vecchie accuse nei confronti delle autorità svizzere: «Ci spogliano, ci tolgono tutti i vestiti e ci costringono, uomini e donne, a perquisizioni intime e umilianti. Dov’è il rispetto dei diritti umani?».

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