Nell’era degli scarti la causa (persa?) dell’ambiente

L’appuntamento A Lecco, giovedì, l’intervento di Marco Armiero Storico dell’ambiente, sua la teoria del “wasteocene”

La giustizia ambientale è una causa persa? È una provocazione il titolo dell’intervento di Marco Armiero per l’edizione 2023 de Le Primavere, che si terrà presso il Politecnico di Milano, Polo di Lecco, giovedì 18 maggio alle 9.30. Una provocazione che porta avanti innanzitutto una critica al paradigma dell’antropocene.

Nuova era geologica

Armiero, storico dell’ambiente, Icrea Research Professor presso l’Institut d’Història de la Ciència (Ihc) dell’Universitat Autonoma de Barcelona, ha sviluppato una teoria che mira a sanare una mancanza all’interno di questo paradigma. Secondo la narrativa su cui si fonda l’antropocene, infatti, «noi umani, con le nostre attività, non solo abbiamo un effetto sull’ambiente, ma abbiamo addirittura modificato i cicli biogeochimici dell’intero pianeta», tanto da catapultarlo in una nuova era geologica: l’antropocene, appunto.

La mancanza dell’antropocene sta proprio nella sua definizione. Come spiega Armiero, «il fatto è che usa un noi universale. Noi, gli umani. E così cancella tutte le differenze di classe, di genere, di razza e storiche. È come andare al ristorante con il proprio partner, uno ordina la pizza e l’altro l’aragosta, e poi si paga alla romana». La teoria sviluppata da Armiero propone un altro termine: wasteocene. L’era degli scarti. Non rifiuti in senso stretto, ma «relazioni di scarto: il tentativo di un ambiente puro e sicuro, le gated communities, di separarsi e salvarsi da solo. Un rapporto dell’Onu ha parlato in questo senso di climate apartheid. Si tratta di divisione, di un muro che separa ciò che è scartabile da ciò che ha valore».

Ciò che viene scartato sono soprattutto le storie, la possibilità per le comunità di scarto «di raccontarsi in modo diverso». Un esempio? Cancer Alley, un tratto di terra di 85 miglia lungo il fiume Mississippi, tra Baton Rouge e New Orleans, nelle parrocchie fluviali della Louisiana, dove si trovano oltre 200 impianti petrolchimici e raffinerie che da sole rappresentano il 25% della produzione petrolchimica negli Stati Uniti. «Cancer Alley - spiega Armiero - restituisce subito il potere performativo delle parole. Il governo della Louisiana lo chiama il corridoio industriale, ma Cancer Alley è il nome con cui è noto, perché vede altissimi tassi di patologie cancerogene. Tutto ciò succede nelle stesse terre e verso le stesse comunità che hanno subito, decenni prima, la sorte della schiavitù e delle piantagioni».

Quello che si attiva è un meccanismo perverso di “alterizzazione” (in inglese othering), ovvero «la produzione dell’altro, l’altro radicalmente diverso da noi, che subisce logiche diverse da quelle che regnano nella gated community. Succede che muoia un bambino di pochi mesi al confine della ricca Europa, che finisca cadavere sulle nostre spiagge, e che l’Europa si interroghi solo sulla legittimità o meno di pubblicarne la foto sui giornali».

Infrastruttura narrativa

Com’è possibile? Questo succede perché «il wasteocene non si regge con i manganelli e i carri armati, ma grazie a un’infrastruttura narrativa tossica, in cui viviamo senza accorgercene. Cancella l’ingiustizia, la normalizza o la rende invisibile. E noi non ci accorgiamo degli scarti che produce».

Quindi la giustizia ambientale è una causa persa? Forse sì, forse no. Armiero prova a proporre «una guerriglia narrativa, uno storytelling controegemonico, che racconti l’ingiustizia ma anche le mille storie di resistenza e di creazione di comunità che ugualmente vengono cancellate, quando invece è importante portarle alla luce».

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