Omicidio Lidia Macchi, un arresto dopo 29 anni. È un ex compagno di liceo.

La studentessa fu trovata in un bosco a Cittiglio in provincia di Varese nel 1987. L’uomo fermato sarebbe l’autore di una lettera anonima inviata alla famiglia

Un uomo è stato arrestato stamani per l’omicidio di Lidia Macchi, la studentessa trovata morta in un bosco a Cittiglio, in provincia di Varese, nel 1987. L’arresto, dopo quasi trent’anni dal fatto, è stato eseguito dalla Squadra Mobile di Varese su disposizione del gip di Varese e su richiesta del sostituto pg di Milano, Carmen Manfredda. Da quanto si è saputo l’arrestato è un ex compagno di liceo della vittima.

L’uomo arrestato si chiama Stefano Binda: sarebbe lui che il 9 gennaio dell’87, giorno dei funerali della ragazza, avrebbe inviato una lettera anonima a casa della famiglia Macchi intitolata “In morte di un’amica” che conteneva riferimenti impliciti all’uccisione della giovane.

Da quanto si è saputo in relazione all’imputazione di omicidio volontario aggravato dai motivi abietti e futili, dalla crudeltà, dal nesso teleologico e dalla minorata difesa, Binda, 48 anni (aveva un anno in meno di Lidia Macchi all’epoca), avrebbe prima costretto la ragazza ad un rapporto non consenziente e poi l’avrebbe uccisa con coltellate “a gruppi di tre”. In particolare, l’uomo, laureato in Filosofia e descritto come «colto», senza occupazione fissa (prima di essere arrestato viveva con la madre pensionata a Brebbia, nel Varesotto), e con un passato di droga negli anni ’90, sarebbe salito sull’auto della giovane il 5 gennaio 1987 nel parcheggio dell’ospedale di Cittiglio (Varese), dove Macchi si era recata per andare a trovare un’amica. L’auto con a bordo i due, sempre stando all’ imputazione, si sarebbe mossa fino a raggiungere una zona boschiva non distante e là Binda, secondo l’accusa, avrebbe prima violentato la ragazza e poi l’avrebbe punita uccidendola, perché nella sua ottica aveva «violato» il suo “credo religioso” ’concedendosì. Non è chiaro, nell’ambito delle indagini basate su una serie di indizi, se l’uomo abbia costretto la ragazza a salire in auto con lui nel parcheggio e ad appartarsi vicino al bosco.

L’avrebbe, poi, colpita, dopo la violenza, con numerose coltellate prima in macchina e poi mentre cercava di fuggire all’esterno. I colpi, in particolare, sarebbero stati inferti “alla schiena» e anche ad una gamba mentre stava cercando di scappare. Lidia Macchi sarebbe morta per le ferite e per “asfissia» e dopo una lunga «agonia» in una «notte di gelo».

Quest’ultimo passaggio del capo di imputazione, formulato dal sostituto pg di Milano Carmen Manfredda, riprende alcune parole scritte nella misteriosa ed inquietante lettera anonima che arrivò il giorno dei funerali alla famiglia Macchi. Lettera che, secondo le nuove indagini, sarebbe stata scritta proprio da Binda.

«Stefano è un barbaro assassino». Sono le parole scritte in un foglio trovato dentro un’agenda rinvenuta a casa di Stefano Binda, l’uomo arrestato oggi per l’omicidio di Lidia Macchi, uccisa nel 1987. La «grafia» del foglio «risulta ascrivibile allo stesso Binda». E’ quanto si legge nell’ordinanza di custodia cautelare.

Stefano Binda, già subito dopo l’omicidio di Lidia Macchi del 1987, si premurò «di darsi un alibi» sostenendo «di aver preso parte ad una vacanza organizzata a Pragelato nel periodo 1-6 gennaio» di quell’anno e, dunque, di essere stato lontano da Cittiglio (Varese) la sera del 5 gennaio quando la studentessa venne uccisa. Tuttavia, «la verità è che Binda non è affatto andato in montagna o forse è tornato un giorno prima».

Lo scrive il gip di Varese Anna Giorgetti nell’ordinanza di custodia a carico di Binda, spiegando che anche un amico «del cuore» del presunto assassino, sentito come teste, «si preoccupa di offrirgli un alibi sicuro» anche se «sa perfettamente» che “quello stesso 5 gennaio» l’uomo era a Cittiglio e «lo ha visto». Nelle prime dichiarazioni del 13 febbraio ’87 l’amico aveva dichiarato, tra l’altro, che Binda la sera del 5 gennaio andò «al cinema» con lui a Cittiglio, salvo poi «ritrattare» nei successivi verbali, dicendo di non averlo visto. I due, per il gip, si sarebbero sentiti per «cambiare versione».

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