Cronaca
Sabato 03 Gennaio 2009
Risate e odori di cucina
La poesia va in villeggiatura
Le composizioni del poeta dialettale Francesco Bellati nascevano
dalle giornate trascorse a Gravedona fra pranzi personaggi curiosi
«E pioeuv e pioeuv, e mai forniss de pioeuv…» Sul lago capita spesso che si aprano le cateratte del cielo e una volta aperte stentino a chiudersi. Che può fare allora un povero villeggiante, costretto a rinunciare alla progettata escursione per i monti dell’alto lago, dove già pregustava incetta di cacciagione, mascarpe e formaggini? Sul finire del Settecento Francesco Bellati, spesso invitato dalla cognata e dal fratello a passare una vacanza a Gravedona (esiste ancora la loro casa, in contrada del Maglio), non aveva grandi alternative: o tapparsi in cucina a fumare la pipa e aiutare il cuoco a pulire i funghi, o uscire con l’ombrello in giardino, spazzare le fontanelle, spiare se si rischiarava il cielo di Brenzio, e intanto raccogliere le mele marce cadute nell’erba e "trà scorensc". Un’attività più nobile dello scoreggiare rimaneva non detta: scrivere versi d’occasione in dialetto, sonetti talvolta, e altre volte lunghe composizioni in ottave o sestine, o "bosinate" in ottonari a rima baciata.
Bellati, originario della Valsassina, era un probo funzionario del governo austriaco, che continuò la sua carriera anche sotto i francesi concludendola come Direttore del censo a Milano. Alla poesia, nella sua vita, aveva assegnato un posto ancillare. Se in gioventù aveva forse sognato di illustrarsi come un nuovo Balestrieri, "travestendo" in milanese alcuni canti dell’<Orlando furioso> e dell’<Eneide>, presto abbandonò i progetti troppo lunghi e impegnativi. Le nobili passioni civili, le "breve" preromantiche, i forti sentimenti amorosi o anche solo familiari gli erano sconosciuti. Il suo estro intermittente si riaccendeva nei momenti liberi dai doveri d’ufficio, durante una vacanza, in prossimità d’un onomastico o altra ricorrenza: era soprattutto un estro conviviale, che gli dettò poesie "da tavola", da "consumare" durante una riunione festiva non diversamente da polenta, busecca, funghi trifolati, ravioli in brodo, arrosti, missoltini, semuda, castagne innaffiate di panna o di vino novello, cioccolata fumante, panettone. Poesie impregnate dai profumi e dagli odori forti della cucina, un po’ unte come i piatti e bicchieri ormai in disordine sulla tavola, e intorno alle quali ancora par di sentire le risate fragorose dei convitati, le interruzioni dei commenti, le finte proteste femminili a un passo un po’ ardito, l’esplosione di qualche rutto liberatorio. Poesie che in definitiva avevano le stesse qualità delle vivande appena mangiate: semplicità e genuinità. «Quand ho pacciaa ben - Dervi la bocca a dì quel che ven ven» è l’epigrafe apposta dal Bellati al suo atto poetico, fisiologico sembrerebbe, prima ancora che intellettuale.
Si delinea nelle sue composizioni, delle quali esiste una buona edizione a cura di Pietro De Marchi presso l’editore Scheiwiller, un piccolissimo mondo antico che ha solo tre luoghi d’elezione: Milano, Angera, Gravedona. Il cuore nascosto di ognuno di essi è una casa: casa Bellati (quella del fratello a Milano, villa Marinoni ad Angera, un’altra casa Bellati a Gravedona, che è il luogo fra tutti prediletto). Il personaggio principale dei tre microcosmi è la padrona, la "resgiora". È lei che sovrintende, ha occhio per tutto, interviene a tempo per tutto, come un’ape regina che abbia al tempo stesso le virtù dell’ape operaia. Intorno a lei i maschi sono ridotti quasi a comparse e a parassiti, tanto il marito quanto i figli e gli amici. Fra questi ultimi prevalgono gli ecclesiastici: parroci, frati, abati e abatini. Più importanti di loro di direbbe siano le persone di servizio: i "donzell" (le cameriere) che si occupano della colazione, delle stanze, della biancheria, dell’argenteria, il cuoco che si preoccupa di rimpinzare tutti a dovere e di variare le portate dei pranzi. Seguendo le attività domestiche, il Bellati finisce per compilare dei cataloghi e delle mappe particolareggiate: le stanze, la loro disposizione e destinazione; i pranzi e le pietanze; le incombenze dei servi durante il giorno; il guardaroba dei signori, i dettagli della moda. Con penna veloce e leggera stende, in definitiva, l’inventario di quello che definisce «el noster Paradis terrester». Le cose, all’interno dei confini dell’Eden, sembrano immutabili, il tempo non pare lasciarvi traccia. In villeggiatura si vanno a trovare e si ricevono sempre le stesse persone, si mangiano gli stessi cibi, le battute e gli scherzi si ripetono uguali. C’è sempre l’occasione buona per prendere in giro i paesani di Gravedona che scambiano per il diavolo una capra con le corna impastoiate nelle corde delle campane, e quelli di Musso che annaffiano i prati di latte nella speranza «de segà poeu col fen anca el butter». Se arriva ospite un conte comasco, si può tornare a mettere a confronto la villeggiatura elegante (Cernobbio, la villa del Pizzo) del ramo comasco e quella spartana dell’alto lago. Oppure si può sempre rispolverare il bisticcio città-campagna e pianura-montagna, concludendo con l’ironico inventario dei difetti del monte e del piano, con l’elogio del mondo bello perché vario, e con una vertiginosa sticomitia di insulti degna, a tratti, della spudorata fantasia di Rabelais: «Gatt mangion de refettori -speziee del Purgatori -arzipret dej animal -protocoll di servizial…» e avanti per un’ottantina di versi.
E tuttavia, nonostante la precauzione di lasciar fuori dei cancelli i temi e le idee nuovi che possono indurre diffidenza e disagio, qualche folata di sabbia e di polvere riesce a infiltrarsi nell’Eden e ad offuscarne l’immagine tersa ed ordinata. Non si nominano i Francesi, e meno che mai la Rivoluzione, ma improvvisamente nella <+G_CORSIVO>Poesia leggiuda a tavola -in del dì de Santa Pavola<+G_TONDO> del 1802, il Bellati mostra di accorgersi della crepa che si è creata tra il presente e il passato recentissimo: «Besognava vedé comè i Cusinn/ Andaven in quii temp a foeugh e fiamma… I Cardenzer lustraven i cardenz/ e tiraven a volta tucc i argent;/ Preparaven di past e di carsenz/ Cont on pien faa de sciori ingredient… I servitor allora eren tucc bon… Hin pur anch ben divers i temp d’adess…» Quegli imperfetti, in un mondo dove aveva regnato un eterno presente, suonano come rintocchi di campane a morto. Non sono solo le mode a essere cambiate con la fine dell’Ancien Régime, e il disagio non sta soltanto nel vedere i giovanotti pettinati alla Brutus e le donne in andrienne. Qualcosa di più grave è accaduto: è finita la gioia di vivere. E le figurine del Bellati sono sul punto di trasformarsi in caricature, per di più patetiche, rassegnate a ballare un ultimo goffo minuetto nel primo atto dello Schiaccianoci.
Basilio Luoni
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