Il loro progetto si aggiunge a una lista sempre più pingue di iniziative analoghe, qualcuna più goliardica, qualcuna più seria. Di Como e dei comaschi, però, non si fa cenno, almeno non in quest'ultima. Si sono dimenticati di noi, ed è difficile dargli torto. Del resto facciamo soltanto cose brutte, e quando non sono brutte sono stupide.
Chiudiamo la funicolare nel pieno della stagione turistica, che se capitasse al Monte Bré i conducenti si incatenerebbero alla cremagliera. Ci imbarchiamo in progetti goffi e faraonici che non sappiamo portare a termine, mentre a Lugano il lungolago se lo coccolano come un neonato. Non manteniamo mai la parola: gli avevamo raccontato che avremmo realizzato la stazione unica, incrociando i nostri scalcinati binari con le loro luccicanti traversine, ma naturalmente stavamo scherzando.
Potremmo continuare all'infinito, ma in realtà, oltre a essere ghiotto, ideale per una serata a base di Merlot in qualche crotto del Mendrisiotto, il tema è anche maledettamente serio, come ha detto bene ieri l'assessore di Varese Fabio Binelli rispondendo ai colleghi dell'edizione varesina de La Provincia: «La proposta - ha spiegato - risponde a una logica nuova che si sta diffondendo in Europa, quella secondo cui non sempre i confini nazionali corrispondono a confini realmente sensati. Zone come la Valtellina o la provincia di Verbania hanno già reti di connessione molto strette con la Svizzera, che vanno dalla condivisione infrastrutturale alla contiguità di interessi, e questo vale anche per le province di Varese e Como».
Nel caso dei cugini ticinesi, tuttavia, questa timida spinta verso sud risponde anche a una necessità di sopravvivenza: la Svizzera italiana, cioè il Ticino e le quattro valli italofone grigionesi (Mesolcina, Calanca, Bregaglia e Valle di Poschiavo) oggi rappresentano una sorta di ridotta, messa ai margini di un piccolo ed efficiente impero che negli ultimi cent'anni ha scelto di spingere il proprio baricentro economico e culturale verso nord, in qualche modo germanizzandosi.
Un secolo fa l'italiano - con il suo corollario di cultura e ricchezza - era decisamente più diffuso. Si parlava molto anche in Engadina, per esempio, dove oggi sopravvivono solo minuscole sacche di resistenza. È impossibile prevedere il futuro di questo angolo di italianità purissima, ma l'emarginazione della lingua rischia di essere, anche, emarginazione di un popolo, sia pure entro i confini di un Paese, la Confederazione appunto, che sa essere davvero multiculturale. Noi e le nostre province (sì, anche noi comaschi soffocati dalle nostre brutture), siamo una alternativa valida, un'opportunità di sviluppo per una economia che gode senz'altro di salute migliore - almeno rispetto alla nostra - ma che al pari della nostra ha la necessità di trovare nuove leve cui aggrapparsi per crescere. I lombardi del nord lo sono già, nonostante questo eterno rapporto di odio e amore, e lo sono ogni giorno, nel viavai eterno attraverso i valichi, ai supermercati, nei posti di lavoro, negli uffici di cambio (frequentatissimi in questi mesi di franco stellare), lungo autostrade e ferrovie che da sempre condividiamo. Una nuova ricchezza può passare da qui, forse anche più di quanto non ne passi sulla rotta dell'Appenzello. È un treno da non perdere, per loro ma anche per noi.
Stefano Ferrari
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