Evocare il terrorismo
non serve a nessuno

In un vecchio film del 1969 di Ettore Scola, «Il commissario Pepe», Ugo Tognazzi funzionario di polizia, a un collega che gli annuncia «si prevedono disordini» in seguito a una manifestazione studentesca, replica seccamente: «Lo sai perché ci sono i disordini? Perché qualcuno li prevede».
Non bastasse l'ancora fresco ricordo degli scontri di Roma, anche questi ampiamente previsti da polizia e perfino dai servizi segreti un mese prima che accadesse (salvo poi quasi dimenticarsene il giorno stesso), ora tocca al ministro del Lavoro Maurizio Sacconi gettare la luce su un capitolo che si vorrebbe chiuso per sempre: il terrorismo.
Solo che, trascinato dal suo stile e dalla sua passione, Sacconi ha rischiato di accendere non una candela per illuminare un possibile problema, ma un candelotto di dinamite che potrebbe far deflagrare ulteriormente un clima sociale già caldo per suo conto. Sia chiaro: il ministro ha espresso un pensiero che non va sottaciuto o preso sottogamba. Come ha ricordato nell'intervista di ieri a Maria Latella, Sacconi conosce bene gli anni '70 - quando nel Veneto militava peraltro nell'ala sinistra del Psi, quella più radicale -, le violenze di quegli anni e quelle successive, fino agli omicidi di Marco Biagi e Sergio D'Antona, esperti riformisti in campo sociale. Sa bene qual è  il "brodo di coltura" che fino alle esecuzioni di Biagi e D'Antona ha prodotto le cellule delle nuove Brigate Rosse, un vivaio inequivocabilmente influenzato dalle frange estreme della sinistra o della vecchia Autonomia.
Ma da una riflessione a lanciare un allarme su possibili omicidi come quello di Biagi, ce ne corre. Se non altro perché quando sostiene di vedere «una sequenza dalla violenza verbale alla violenza spontanea a quella organizzata, che mi auguro non arrivi ancora all'omicidio» finisce per stabilire un parallelo tra la critica forte, anche radicale, e un qualcosa che con il dibattito non ha nulla a che fare. L'uscita di Sacconi, peraltro non nuova nella sostanza, stavolta ha sollevato un'alzata di scudi diffusa tra sindacato e opposizioni, ma anche tra chi condivide molte delle proposte del ministro in tema di lavoro. Come ad esempio il giuslavorista Pietro Ichino che ha messo a fuoco il rischio reale innescato dall'evocazione di una stagione di sangue che si spera lontana e archiviata: il rischio che il dibattito sociale sui licenziamenti e, in generale, su una diversa disciplina del lavoro, dove una maggiore flessibilità si coniughi a un ampio spettro di garanzie, finisca per essere compresso dalla paura e dalle accuse a chi non è d'accordo di dare alimento a un possibile ritorno delle mitragliette Skorpion.
La crisi stringe, soffoca giovani e famiglie, il 15,6% di queste ultime, secondo l'Istat, è sotto la soglia di povertà. Il peggio, in termini di sacrifici, in particolare per le classi medie, per i dipendenti, autonomi e piccole imprese deve ancora arrivare, il 2012 sarà un anno durissimo sia perché entreranno in vigore molti dei tagli previsti dalle manovre estive, sia perché se ne aggiungeranno altre. In un tale contesto è difficile parlare di licenziamenti facili, il messaggio che si lancia è pessimo. Occorre discutere con calma preoccupandosi dei bisogni dei cittadini, oltre che delle casse statali. La temperatura sociale, è inevitabile, salirà. Sarà meglio, per tutti e da parte di tutti i soggetti coinvolti, non buttarvi sopra benzina, soprattutto se presa dalle molotov degli anni di piombo.
Umberto Montin

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