Condannato un Moggi non facciamone un altro

Mettiamola così: alla verità non ci arriveremo mai. Dovremo accontentarci di un riflesso della medesima: il riflesso che della verità offre una sentenza, seguita a un processo, seguito a interrogatori, accertamenti, verbali, intercettazioni. Tutto ciò, lo sappiamo, non costituisce la verità: è però la sua migliore rappresentazione. Ciò detto, palla al centro.
Perché di calcio stiamo parlando. Di calcio e, naturalmente, di Calciopoli. C'è però una differenza rispetto alle solite discussioni del lunedì al bar, alle battute velenose tra colleghi in ufficio e anche all'infinito discorrere dei commentatori che, specie sulle tv locali, non spengono mai l'interruttore, uno con il suo altero juventinismo da opporre allo sfrenato milanismo di un altro, un terzo armato di fervente interismo da rinfacciare ai primi due: la differenza è che ci troviamo in un'aula di Giustizia e una condanna a 5 anni e 4 mesi non è un rigore dubbio da guardare e riguardare alla moviola per poi rimanere ognuno sulla sua opinione. Una condanna a 5 anni e 4 mesi - quella comminata a Luciano Moggi - è un punto fermo, una svolta: un capitolo di storia.
Tangentopoli, svelando la trama di corruzione di cui era intessuto il sistema dei partiti, chiuse la Prima Repubblica: l'inchiesta di Calciopoli, approdata alla sentenza di Napoli, consegna alla memoria il Primo Tempo del calcio italiano. Un Primo Tempo nel quale, evidentemente, non tutti hanno giocato da gentiluomini, a partire dallo juventino Moggi per arrivare a dirigenti o collaboratori di altre squadre (nell'elenco dei condannati nomi legati a Lazio, Fiorentina, Reggina e Milan), al designatore Paolo Bergamo e a Pier Luigi Pairetto e Massimo De Santis in rappresentanza della categoria arbitrale, e infine per approdare a Innocenzo Mazzini, che assicurava la partecipazione della Figc. Esisteva insomma una Cupola, o quantomeno una sorta di congrega, impegnata, se non a stabilire con matematica precisione il risultato finale delle partite, a indirizzarne l'esito, a modellarne la soluzione a furia di «tu non sai con chi hai a che fare», «ricordati chi sono gli amici» e «se vuoi far carriera bisogna che ti comporti bene».
Un tratto vergognoso ma italianissimo, diffuso, lo sappiamo bene, nella maggior parte degli ambiti professionali e sociali, al quale finalmente non è più possibile ritenere estraneo il calcio, neppure considerando i fatti dal più fazioso dei punti di vista. Almeno un decennio di campionati (dal 1995 al 2006) non può essere archiviato sotto il profilo sportivo, societario e organizzativo senza tener conto di quanto hanno detto i giudici di Napoli, e cioè che il mondo del pallone era gestito da una ghenga i cui metodi, con più o meno efficacia, venivano poi imitati e applicati su larga scala.
Questo non tanto per umiliare chi, al solito bar, si sentirà rinfacciare la sentenza, come fosse una colpa ammirare certi colori piuttosto che altri o alcuni campioni invece di altri, e neppure per fornire nuove munizioni agli eterni combattenti sul fronte della dietrologia; piuttosto, per essere sicuri che condannato un Moggi non se ne faccia un altro e che, nell'interesse di tutti, il Secondo Tempo del calcio italiano sia più pulito del Primo.

Mario Schiani

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