Quei poveri genitori
con l'inverno nel cuore

La ferita non ha mai smesso di sanguinare. Si richiude, ogni tanto, come fa la tartaruga quando ritira la testa nel carapace, ma improvvisamente i lembi non sono più accostati e il dolore riprende forma di sangue, a un anno da quell'assurdo 26 novembre quando una ragazza scomparve nel nulla, e del suo sorriso non rimase che il ricordo.
Un ricordo che per Fulvio e Maura Gambirasio ha sembianza di stimmate, di una sofferenza intermittente, di gradi diversi e di multiforme intensità, perché di Yara si è ritrovato il corpo ma la sua voce, i suoi gesti, i suoi pensieri è come si fossero cristallizzati alle 18,30 di quel venerdì, quando lei uscì dalla palestra quasi seconda casa, e generò la ferita inguaribile.
Il riserbo, il silenzio, il cercare di continuare a vivere per gli altri figli, i fratelli di Yara, non sono che passi su un tapis roulant, si cammina, si fatica, ma non si procede di un metro nell'elaborare un lutto a metà, un lutto che ha visto una sagoma contorta stesa tra le stoppie di un campo ma non ha guardato negli occhi l'assassino, non ha dato al pianto la nota grave della rabbia.
Perché se la morte è arrivata, e anch'essa in modo poco chiaro, indefinito, una morte non agita fino in fondo, una morte “dovuta” ma forse non voluta, nessuno ancora si capacita di come una adolescente educata e gentile, una piccola campionessa sportiva, sia arrivata a quella fine atroce, sospesa in un nulla investigativo, così incompiuta e per questo ancora più assurda.
L'angoscia dei genitori, il continuo pulsare nel cervello di infinite varianti di soluzione, è la stessa provata da un'altra famiglia, quella della varesina Lidia Macchi, uccisa su un sentiero al limitare di un boschetto, il 5 gennaio 1987, il corpo violato abbandonato tra gli sterpi e le siringhe dei tossicomani.
Storie oscure, storie invernali, di ombre cupe e di gelo, di fantasmi che si incarnano per poche ore in spietati assassini per poi scomparire nel nulla, lontani dalla scienza esatta degli investigatori, dalle loro ipotesi a caldo e a freddo, dai metodi che la tecnologia ha reso fantascientifici.
Assassini senza nome e senza volto che infliggono più volte la morte, non soltanto alla vittima designata, ma a una famiglia, a un gruppo di amici, a un paese intero su cui grava il sospetto della colpa, perché la scienza non fa sconti e procede in linea retta, compulsa i dati per farne profili. Così il vicino di casa sospetta del vicino.
Yara come Lidia, come Norma, la protagonista attorno a cui ruota lo splendido romanzo - tratto da una storia vera - “I cento veli” di Massimiliano Comparin, un autore esordiente, ragazza violentata e uccisa da diciassette aguzzini nella Trieste delle foibe. Gran parte dei suoi assassini non si ritrovò mai, gli arrestati furono costretti a vegliare il cadavere prima di essere giustiziati all'alba, e tre di loro impazzirono nella notte per il terrore e il senso di colpa.
La ferita sanguina ancora, a 365 giorni dall'inizio dell'incubo. Per questo Fulvio e Maura non vogliono commemorazioni, libri con frasi di cordoglio e ricordi, intitolazioni di palestre, targhe e lapidi. Sono come aghi che tornano a pungere la carne dove una cicatrice si stava lentamente formando.
Sperano, i genitori, che questo indicibile inverno del cuore termini con un nome e un volto, e il sole ritorni nella palazzina di via Rampinelli a Brambate, assieme a rinnovati germogli dell'anima. Yara è un nome azteco. Vuol dire primavera.
Mario Chiodetti

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