Il cervo agonizzante
svela il nostro egoismo

Gli animali non mutano espressione nemmeno quando il dolore è insopportabile e la morte è lì a un passo, procurata da chi il dolore non sa nemmeno cosa sia, né la pietà e neppure lo strazio. Soltanto lo spasimo dell'agonia cambia per qualche istante il movimento dei muscoli del muso, della bocca, ma gli occhi rimangono l'atto di accusa più grave nei confronti della specie umana, senza però che lo sguardo diventi mai accusatorio.
La paura lo attraversa un attimo prima della fine, rendendolo stupefatto per tanta crudeltà, la cattiveria gratuita e becera che l'uomo riversa sui più deboli, su chi non comprende il suo linguaggio di animale diventato macchina e alla fine vittima della sua stessa evoluzione. Osservate se ne avete la forza, gli occhi dalle ciglia frangiate del magnifico cervo maschio (foto a pagina 39) abbandonato come un rifiuto ai bordi della strada per il monte Bisbino, ucciso a sangue freddo mentre cercava da mangiare in un ambiente sempre più ostile, in nome di assurde disposizioni sul “diradamento della fauna selvatica” che autorizzano esecuzioni sommarie come questa.
Guardatelo negli occhi, rimasti aperti allo stesso modo di quando esploravano il sottobosco, e ricostruite gli ultimi momenti della sua vita, colpito a morte da sparatori autorizzati, con un polmone a pezzi, ricoperto di sangue, costretto a correre per centinaia di metri, senza più forze, solo perché alcune persone sedute a un tavolo hanno deciso così. Non ci troverete odio, in quegli occhi mansueti, ma soltanto stupore, meraviglia per aver incontrato tanta ferocia mista a stupidità.  L'uomo è specialista nella distruzione programmata, è una delle caratteristiche peggiori della nostra specie, esercitata tanto contro i nostri simili, quanto nei confronti di ogni animale e della natura nel suo complesso. Per anni il territorio è stato vessato (e lo è tuttora) da disboscamenti, cementificazione abusiva, speculazione edilizia selvaggia, per anni i cacciatori hanno allevato cinghiali - salvo poi liberarli e lamentarsi per i danni ai coltivi - ucciso i rapaci e gli altri grandi predatori che naturalmente mantenevano l'equilibrio biologico tra predatore e preda, così oggi i grandi ungulati come i cervi e i camosci non incontrano più i loro nemici naturali e aumentano di numero, affollando le scarse aree per loro ancora accessibili. Così si decide di uccidere, a tavolino, come si fanno i conti della spesa, distruggendo per la seconda volta ciò che la natura ci regala, mandando sul posto inetti fucilieri, incapaci perfino di evitare al cervo l'orribile sofferenza finale, colpendolo così come viene, come si fa con un fantoccio di stoffa messo lì per bersaglio quando ci si esercita al tiro a segno.
Viene in mente ciò che Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli scrivono, nel loro ultimo romanzo “Malastagione”, a proposito della ferocia dei cacciatori della domenica, dotati di fucili che costano quanto un'automobile, ignoranti di ogni possibile abitudine o comportamento animale e capaci soltanto di sparare nel mucchio, spesso senza neppure raccogliere il cadavere di un fagiano o di un cinghiale. Gente ben diversa da chi cacciava un tempo per mangiare, come negli anni delle guerre, o era capace comunque di conservare un'etica, come l'”Adùmas” del romanzo, simile al “Cacciatore” di Robert De Niro, quello che portava con sé un colpo solo, per essere almeno alla pari con l'animale. Il “consumo” compulsivo della natura ricorda quello della nostra civiltà, erosa dalla sopraffazione e dalla superficialità, da un'affannosa rincorsa a ogni forma di potere che nasconde soltanto la paura della propria mediocrità.
Mario Chiodetti

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