Dentro i numeri della disoccupazione giovanile ci sono tante cose. C’è la crisi che fa aumentare i senza lavoro e non consente ai ragazzi di trovare un posto. C’è un sistema scolastico che fatica a rispondere alle esigenze delle aziende. E lo confermano le imprese che cercano determinate figure e non le trovano. Mancano tornitori, fresatori, stampatori, informatici e telematici, ma anche idraulici e posatori di tubazioni, camerieri e parrucchieri. In totale, sono più di quarantamila i posti di lavoro che nel 2011 le aziende italiane non sono riuscite a coprire. C’è una disciplina sul lavoro troppo rigida. Fa male scriverlo perché sarebbe più bello un mondo con una distribuzione del reddito più equa, ma - secondo gli economisti - estendere protezioni e garanzie degli occupati ha un costo: la riduzione del tasso di occupazione, soprattutto dei giovani e delle donne. Forse per questo Monti, nel presentare la riforma del lavoro ora in discussione in Parlamento, ha più volte sostenuto che si tratta di misure pensate soprattutto per i giovani. Sarà così? La teoria economica e l’esperienza degli altri paesi, soprattutto quelli di cultura anglosassone, confermano tale asserzione. Ma non sempre i modelli teorici trovano conferma nella realtà. E lo stesso si può dire delle esperienze di altri contesti economici. Anche perché si potrebbe obiettare che la Germania - patria del capitalismo renano, meno aspro di quello anglosassone e con una forte accezione concertativa - può sbandierare un tasso di disoccupazione giovanile prossimo al 5% (in Italia siamo sul 30%, in Spagna siamo addirittura su livelli superiori). Cosa si ricava da tutto questo? Che i posti di lavoro non li porta la cicogna, né si creano per decreto. L’occupazione cresce se l’economia cresce. Ed è qui che bisogna intervenire: servono misure per lo sviluppo. Le invocano gli imprenditori. Le chiedono i sindacati. Finora il Governo si è impegnato in una stretta disciplina di bilancio. E per far quadrare i conti ha azionato con forza la leva della tassazione. È arrivata una pioggia di balzelli (sui biglietti aerei, sulla casa e sull’auto), con l’effetto di aver ancora ridotto le possibilità e la voglia di spendere degli italiani. Soffrono i consumi e anche gli investimenti delle aziende sono fermi, con il risultato che il Pil cala (secondo le stime dovremmo assestarci tra il meno 1,3 il meno 1,6%). E se cala la produzione non ci si può aspettare che crescano i posti di lavoro. Servono quindi interventi per lo sviluppo che però potranno essere presi solo dopo una decisa riduzione della spesa pubblica, da fare non più con tagli orizzontali ma con una logica mirata (la spending review). Poi, senza aspettarsi effetti immediati, sarà necessario intervenire sul sistema scolastico e formativo. È necessario avvicinare la scuola al lavoro, e aiutare i giovani a scegliere percorsi formativi che rispondano alle necessità delle imprese. E stage e periodi di tirocinio (sul modello tedesco) in azienda dovrebbero essere valorizzati, avere un carattere strutturale ed essere inseriti nei curricula scolastici. Se quindi dopo la riforma del lavoro, il Governo riuscirà a trovare la forza e le risorse per la crescita e per modernizzare la scuola, è possibile che tutta l’economia riesca a ripartire. E con essa crescano le opportunità per i giovani. Gianluca Morassi