Così, quando si osserva che una quota di ventiquattromila "esuberi" su una popolazione di dipendenti statali pari a circa 3 milioni e mezzo rappresenta "soltanto" una percentuale dello 0,7 scarso, si fa un cattivo servizio alla verità.
"Soltanto" non significa nulla, perché non bisogna dimenticare che, come sempre, dietro i numeri ci sono le persone: perdere il lavoro sarà dura per ognuno di quei ventiquattromila (un po' meno, forse, per gli ottomila tra loro che avranno subito la pensione) e non c'è smilza percentuale che possa giustificare la leggerezza con cui, a volte, si maneggiano e si commentano le cifre.
Si può affermare con sicurezza, invece, che perdere il lavoro è doloroso per tutti: privati e statali in eguale misura. Cambia soltanto, e qui sta il problema, la percezione del dramma.
Il "taglio" dei dipendenti statali è stato annunciato, nei giornali e dalle televisioni, con una tensione verbale giustificata dall'importanza dell'avvenimento, ma che non rende giustizia a quei lavoratori "privati", tanti, sui quali la "scure" non è calata in virtù di un roboante annuncio governativo ma si è manifestata, giorno dopo giorno, nelle pieghe delle crisi, nelle fabbriche sempre più spopolate, nella penombra delle officine stremate dalla mancanza di commesse. Per questi lavoratori non c'è stata l'indignazione della politica, non sono accorse le ambulanze del pronto soccorso elettorale: una spolverata di cassa integrazione e via andare, perché finire a spasso, nel privato, è "normale" mentre nel pubblico ancora oggi, anno 2012, è la violazione di un tabù.
Questo non è giusto sotto un profilo morale ed è controproducente sotto quello sociale: è come se lo Stato avallasse due diversi binari, due diverse interpretazioni del concetto di tutela, una per chi si avvia al lavoro nel settore privato e un'altra per chi invece intraprende la carriera di funzionario pubblico. Lo fa nel campo della salvaguardia del lavoro ma, soprattutto, lo ribadisce in quello dell'efficienza.
È ben noto come, in Italia, raramente l'apparato pubblico, specie la burocrazia, riesce a dare una mano alle imprese, agli artigiani, ai singoli lavoratori alle prese con mille adempimenti. Questo, forse ancor più del costo vivo dell'apparato statale che grava sulle spalle di ogni singolo lavoratore, è il problema più grave e centrale. Lo Stato, costoso o meno, affollato o meno, non contribuisce quasi mai alla spinta economica ma, al contrario, spessissimo la rallenta.
In questo senso, la forbice del concetto di "lavoro" finisce per divaricarsi oltre il limite del tollerabile: come ha detto il ministro Fornero, il "posto" non è un diritto per nessuno, ma per qualcuno lo è ancora meno che per altri.
Mario Schiani
© RIPRODUZIONE RISERVATA