Abbassare
le tasse
è questione
di libertà

  La pressione fiscale italiana è, semplicemente, insostenibile. Abbassare le tasse significa rimettere denaro nelle tasche degli italiani. Questa soluzione è sostenuta - rigorosamente: a parole - da molti movimenti politici, che di volta in volta annunciano di voler ridurre una particolare tipologia di imposte per rilanciare investimenti in ricerca, piuttosto che per spingere i consumi.
L'esito, ogni volta che si apre una discussione di questo genere, è tipicamente che si passa da proposte volte a sforbiciare le tasse a nuove forme di incentivi, pensati per sostenere una particolare tipologia di spesa. Non è per questo motivo che andrebbero abbassate le tasse. Le tasse vanno ridotte, e vigorosamente, proprio perché noi non sappiamo, a priori, che cosa è giusto facciano gli italiani coi loro soldi. Non è una questione “tecnica”: è una faccenda di libertà. Come consumatori, le persone vanno a costituire la domanda per alcune produzioni. Come risparmiatori, gli individui mettono risorse a disposizione del sistema creditizio - che le usa per finanziare progetti imprenditoriali.
E' arrogante sostenere, a priori, che sia “giusto” per una certa persona, in un dato momento della sua vita, fare una cosa piuttosto che l'altra. Ciò che è prezioso per la crescita di un Paese è solamente la ritrovata sovranità dei cittadini sul proprio borsellino.
La “crescita” tanto agognata si fa esattamente così. Ciascuno di noi è un giudice migliore del suo interesse del Consiglio dei Ministri. La crescita si realizza attraverso gli scambi, e le persone comprano e vendono sulla base delle proprie esigenze, dei propri bisogni, delle proprie valutazioni.
Una pressione fiscale al 53% del Pil, dice giustamente Confindustria, è insostenibile. E' un dato che andrebbe ricordato a tutti i soloni che sostengono che il nostro Paese oggi farebbe i conti con le nequizie di anni di “liberismo” - che taluni intestano alle vicende del governo Berlusconi (artefice del 75% degli aggravi d'imposta del 2011), altri all'anno in cui presidente del consiglio è stato Mario Monti. Dov'è il liberismo in un Paese in cui lo Stato requisisce metà del reddito nazionale?
L'Italia avrebbe drammaticamente bisogno di restituire agli italiani pieno diritto sui frutti del loro lavoro. Invece andiamo in direzione opposta. La campagna elettorale che si apre in questi giorni si annuncia, sotto questo aspetto, davvero inquietante.
Berlusconi e Monti hanno cercato di mettere in sicurezza i conti pubblici strizzando gli italiani come limoni. E' possibile che il leader della destra provi a inventarsi qualche pirotecnica giustificazione per il suo comportamento passato: ma è improbabile che il Paese, vaccinato da vent'anni di promesse mancate, ci creda. Il presidente del consiglio ama parlare di “sacrifici”, ma - dopo un anno di severi inasprimenti fiscali a fronte di tagli alla spesa simbolici - è improbabile che la sua promessa di una quaresima permanente faccia breccia nell'opinione pubblica.
Dal canto suo, il probabile vincitore delle prossime elezioni Pierluigi Bersani annuncia senza timore nuove imposte, con lo slogan del “chi ha di più paghi di più”. Ma perché gli imprenditori dovrebbero “investire di più” (altro mantra che si sente ripetere spesso), se si vedono sequestrare quote crescenti dei propri guadagni? “Accà nisciuno è fesso”. I loro investimenti migreranno verso Paesi nei quali lo Stato è meno rapace, con evidenti danni per l'occupazione e per il tessuto sociale.
E' un circolo vizioso: a furia di tassare, la base imponibile si riduce. O, detto altrimenti, a furia di spemere il nostro sistema produttivo, sta finendo il succo.
Alberto Mingardi

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