A che serve un giornale?
Rispondiamo da 125 anni

A cosa serve un giornale? A cosa serve questo giornale? Spesso uno se lo domanda, per primo chi ne ha la responsabilità, e se vogliamo essere sinceri non è facile trovare una risposta. Soprattutto quando così tanto tempo è passato dal primo numero dell’edizione di Como - 26 marzo 1892: 125 anni fa tondi tondi - e quando si avvicinano compleanni importanti per le edizioni di Lecco e Sondrio, che l’anno prossimo compiranno, rispettivamente, i loro primi 30 e 20 anni. È un grande fardello. Un grande onere. Un peso enorme, a tratti insopportabile.

E se si vuole riflettere sul serio su che cosa significhi ancora oggi un quotidiano, la prima cosa da fare è star lontano dalla retorica, dalla melassa, dallo zabaione scucchiaiato da ricorrenze come queste nelle quali la nostra categoria di vanesi e snob se la suona e se la canta su quanto noi reporter d’assalto siamo bravi ed eroici e cristallini e civilmente impegnati, vero baluardo del pluralismo, cani da guardia della democrazia, coesi, adesi e protesi a difesa degli umiliati e degli offesi, pronti a offrire il petto al fuoco micidiale dei padroni, dei corrotti, dei malvagi, tutto il giorno a consumare le suole delle scarpe, a fumare sigarette, a tirar tardi con la camicia stropicciata e i capelli cisposi e pagina e spagina e titola e stitola, perché è un duro mestiere ma qualcuno lo deve fare e d’altra parte è sempre meglio che lavorare e bla bla bla… Ogni rima, una carie.

E così, forse sono più simpatici e veritieri i tanti usi alternativi a cui, soprattutto ai tempi di Carlo Codega, ma anche nel nostro evo multimediale, può essere destinato un giornale: strofinaccio per la pulizia dei vetri, materiale principe per l’accensione del camino, imbattibile tendiscarpe, involucro per gli scarti del minestrone, ciotola fai da te per gattare indefesse, strepitosa materia prima da masticare, infilare nella cannuccia per spararla, tutta umida e bavosa, sul collo della ragazza carina del primo banco, quando a scuola si facevano ancora questi scherzetti da novella del De Amicis, fino al classico utilizzo come supporto in certe emergenze evacuative che i nostri critici non mancano mai di ricordare per ribadire in quale conto tengano la nostra testata. Ma in fondo, anche in quel caso estremo, siamo pur sempre di grande utilità…

Sono tempi tempestosi per l’editoria, di sicuro i più duri, i più sanguinosi, ma al contempo anche i più rivoluzionari di sempre. Anni velocissimi e spietati nei quali la rivoluzione digitale ha messo in crisi in un paio di lustri certezze che sembravano salde come la roccia e che non erano state smosse neppure da due guerre mondiali. Il giornale era comunque quella roba lì. Ora non più. È quella roba lì e tanto altro di diverso, di multiforme, di aleatorio, di cannibalesco.

Ecco la vera sfida, gigantesca. Cambiare tutto perché nulla cambi. Traghettare il nostro giornale dentro un mondo “altro” senza perdere nulla del suo valore.

Ecco, il valore. Forse è questa la risposta. Forse è a questo che serve un giornale. A dare valore. Non valori, pedagogia, filippiche o sermoni. Ma contenuti veri, tempestivi, approfonditi, onesti. Leali. Non ci si riesce quasi mai. Manca sempre qualcosa. L’ultima correzione, la verifica decisiva, la foto emblematica, la capacità di capire veramente cosa interessa ai lettori, e sempre il refuso dietro l’angolo, la superficialità, la sciatteria, la tentazione strisciante, micidiale, avvelenatrice, del conformismo, del luogo comune, della piaggeria, del moralismo, anzi del doppio moralismo. E poi il difetto più grave di noi giornalisti. Non conoscere la realtà, non viverla, non sperimentarla e tentare invece, al caldo delle nostre redazioni autoreferenziali, di modellarla sul calco di quella che abbiamo in testa e che però non ha niente a che vedere con quella che esiste. E così quante volte ti chiedi: ma l’ho davvero firmato io questo numero? Ieri abbiamo lavorato tutto il giorno per questa roba qui?

I compleanni, quelli così importanti poi, non sono occasioni per autoflagellazioni, ma neanche per sciocchi ottimismi. Il pessimista è un ottimista che si è informato. E che sa quanto sia duro il mercato della comunicazione di oggi, perché a fianco di alcuni editori veri ci sono miriadi di attori improvvisati, dilettanteschi, opachi, omertosi e sa quanto ogni pertugio di quella fogna a cielo aperto che troppo spesso è il web erutti schifezze, porcherie, balle colossali, truffe, raggiri senza che nessuno - nessuno! - ci metta un nome e un cognome e senza che nessuno - nessuno! - risponda delle diffamazioni e delle cialtronate spacciate per verità rivelata. Tanto è gratis...

Noi no. Tutti i nostri prodotti, il giornale, le riviste, i libri, gli inserti, i siti, i social, sono riconoscibili, trasparenti e responsabili di quello che di buono e di pessimo offrono ai lettori. Noi ci mettiamo la faccia. La nostra. Con le nostre redazioni, i nostri giornalisti, i nostri agenti pubblicitari, il nostro editore.

Noi raccontiamo il territorio, tutto, quello di destra e quello di sinistra, quello dei ricchi e quello dei poveri, quello dei benemeriti e quello dei mascalzoni, con l’obiettivo di dare voce a tutti, anche se guidati da una catena di valori etici chiari e non negoziabili. E quando prendiamo in carico un’esigenza condivisa dalla comunità - lo scandalo del lungolago di Como, tanto per dirne una - siamo capaci, grazie al lavoro di alcuni cronisti eccellenti, di costruire due campagne formidabili che hanno riscosso l’attenzione dei media nazionali ed esteri, smosso la palude della politica e avvicinato la soluzione. Trovate un altro giornale capace di dettare in questo modo l’agenda e di prendere per la collottola chi maltratta il bene comune e vi offriamo una suite a Villa d’Este.

Se siamo qui dal 1892 e siamo leader indiscussi a Como, Lecco e Sondrio, un motivo ci sarà. E il motivo è che noi siamo noi e gli altri, con tutto il rispetto, sono gli altri. Buon compleanno, Provincia.

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