Dalle nebbie della crisi
spuntano le poltrone

La nebbia si dipana e all’orizzonte spuntano le poltrone. Ai tanti comaschi con poco tempo da dedicare alle segrete cose delle segreterie, questa crisi è subito apparsa più confusa delle altre. Non solo per le molte cautele con cui il gruppo di Forza Italia ha lanciato il penultimatum al sindaco: serve «uno scatto in avanti», diceva la lettera sottoscritta dai consiglieri azzurri, meno «ambizioni personali» e più slancio per non scadere nell’«irrilevanza amministrativa». Un rischio che effettivamente, a giudicare con occhi impietosi incidenti come la gestione estiva dei cimiteri, gli incomprensibili ritardi nelle gare per lampioni, orologi, forni crematori e quant’altro, non è poi così remoto. Sarebbe dunque comprensibilissimo che qualcuno in maggioranza punti a dare la sveglia. Ma questi argomenti, che tanta amarezza hanno provocato nei comaschi, nella «verifica» che in questi giorni appassiona e tormenta i cronisti non sembrano in agenda.

Si parla sempre più chiaramente, invece, della rappresentanza e dei rapporti di forza delle tante anime che sostengono la giunta di Landriscina. Nella lettera al sindaco gli azzurri rivendicano con orgoglio la loro matrice di «cattolicesimo liberale», contrapposta alla politica fatta di «click, videomessaggi, annunci sul web» di cui è maestro, fra gli altri, il vicepremier Salvini. Molti hanno pensato quindi a un riferimento più o meno esplicito alla presunta esuberanza della compagine leghista a Palazzo Cernezzi: sindaco ostaggio del Carroccio, insinuano non solo dall’opposizione.

Invece, a ben vedere, il fuoco azzurro è diretto sui fratellini minori della maggioranza: sul peso in Consiglio e in giunta di Fratelli d’Italia. Più che di fuoco è opportuno parlare di contraerea: la crisi di Palazzo Cernezzi è nata infatti quando i dirigenti azzurri hanno intercettato sopra la loro testa gli effetti innescati dall’accordo lombardo fra Daniela Santanché e Mario Mantovani, che ha portato ad accasarsi sotto le insegne di Giorgia Meloni numerose truppe finora arruolate nell’esercito forzista. In Regione come a Como, dove non a caso proprio ieri sera l’assessore Francesco Pettignano, sin qui fedele agli azzurri e soprattutto ai rinaldiniani, ha annunciato che dopo il gruppo misto potrebbe abbracciare il partito di Butti e Maesani. Altrettanto hanno fatto in questi giorni Tufano e Patera. Altrettanto avevano fatto nei mesi scorsi De Santis e Ferretti.

Insomma se l’esodo proseguisse Forza Italia, in Comune, rischierebbe davvero l’irrilevanza amministrativa. Basti pensare che alle comunali 2017 i forzisti hanno preso quasi il triplo dei voti di Fratelli d’Italia, ma ora si ritrovano con un consigliere in meno. Gli amici della Meloni, invece, partiti con due consiglieri, hanno triplicato la rappresentanza . In termini politici un capolavoro strategico di Alessio Butti e Gianluca Rinaldin, o un rospo duro da ingoiare per Alessandro Fermi, che deve peraltro ancora digerire la bocciatura,firmata anche e soprattutto dagli alleati, del suo candidato alla presidenza della Provincia.

Il paradosso continua con gli assessorati, dove ormai agli azzurri, con l’abbandono di Pettignano, non è rimasto che il seggio finora appartenuto ad Amelia Locatelli. Ed è su queste poltrone che si è incattivita la crisi. Non si riesce più a usare il bilancino, anche perché in questo clima da terza repubblica non si capisce nemmeno bene chi sta con chi. A cominciare per esempio da Pettignano, che il gruppo di Fratelli d’Italia per molte ragioni, alcune intuibili e altre inconfessabili, preferirebbe non annoverare ufficialmente fra i suoi, mentre d’ufficio vuole iscrivere ai forzisti quella Simona Rossotti che formalmente è indicata come tecnico. E poi si litiga sui criteri per far conto: a Forza Italia non va giù di avere due assessori come i fratellini minori che avevano preso molti meno voti; gli altri replicano che i rapporti di forza in consiglio sono cambiati.

Insomma, dipanata la nebbia, le ragioni della crisi sembrano assai più prosaiche dell’esaurimento delle spinte propulsive della rivoluzione liberale, come si diceva una volta. In fondo, è normale. A due condizioni: la prima è che i partiti si spieghino, la seconda è che al termine del valzer delle poltrone si stacchi il bostik a chi non ha saputo gestire strade, cimiteri, lampioni, quartieri, povertà e tanto altro.

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