Frigerio, dall’abisso
il coraggio di amare

Mario Frigerio irruppe nelle nostre vite in una sera di dicembre che gli assomigliava. Fredda fuori, caldissima dentro, al chiuso di mura intiepidite dal vapore della minestra e dalla brace dei camini. Era un uomo che alla banalità del male seppe sempre opporre quella rivoluzionaria del bene, dell’amore che nutriva per la sua Valeria, conosciuta sulle soglie dell’adolescenza, una ragazza madre - si sarebbe detto un tempo - che a poco più di sedici anni gli aveva dato la sua prima figlia e che lui amò sempre con una dedizione e una tenerezza fuori dal tempo

Uomo timido, silenzioso, di una riservatezza che qualcuno avrebbe anche scambiato per freddezza, Mario Frigerio resta - oggi che se n’è andato - un monumento solidissimo a tante cose, tutte molto importanti. Al coraggio, per esempio, alla forza candida che quella sera di otto anni fa lo indusse a precipitarsi giù lungo le scale di casa fino alle porte dell’inferno, ma anche al senso del dovere e a quello della riconoscenza che tutti noi dobbiamo a un’esistenza di cui spesso faremmo a meno, stremati dal destino e dalle sue angherie.

La verità è che Frigerio morì quella notte, lunedì 11 dicembre 2006, e non già perché Olindo avesse tentato di sgozzarlo - come spiegano fin troppo bene tre sentenze passate in giudicato - ma perché quegli stessi vicini del piano di sotto riuscirono comunque a punire lui e il suo coraggio togliendogli per sempre la donna della sua vita, inseguita lungo quelle stesse scale e finita a coltellate a un passo dalla finestra dell’abbaino attraverso il quale, probabilmente, Valeria avrebbe voluto chiedere aiuto.

La vita, una vita che non voleva più, Frigerio ha saputo comunque onorarla fino in fondo, restando sempre coerente e appartato, inavvicinabile e silenzioso, muto anche al cospetto dei tanti fautori di una linea innocentista senz’altro smentita dai tribunali eppure capace - nella sua scompostezza irrequieta - di impedire che quelle ferite si rimarginassero per davvero, e anzi riaprendole, e anzi martoriandole con una violenza che a tanti di noi, erbesi e non, sembrò a tratti quasi medioevale.

Frigerio è stato sempre coerente, di rado cedendo alla rabbia o allo spirito di vendetta: «Sei stato tu», disse ad Olindo puntandogli un dito contro nell’aula di Corte d’assise in cui, nel gennaio del 2008, si era aperto il processo contro i suoi vicini. «Lui lo sa», ribadì al giudice, tornando, con quel po’ di voce che i ferri di un bravo chirurgo gli avevano restituito, al giorno di quella sua prima testimonianza, resa ai carabinieri di Erba poco ore dopo la strage su un letto d’ospedale. Oppose due occhi grandi di bambino a quelli del gigante che voleva ucciderlo, «occhi - disse - da assassino».

Non sapeva, all’epoca del processo, quanto dolore ancora lo aspettasse dietro l’angolo, quanto male ancora gli avrebbe inferto la squadra dei revisionisti che di lì ai mesi, agli anni a venire, avrebbero riempito pagine di giornali (non questo), e studi di talk show, e tavole rotonde granguignolesche componendo falsi scoop e ritrattazioni ai confini della realtà, a partire da quelle dell’altro vedovo di questa storia maledetta, Azouz Marzouk, l’amico di Fabrizio Corona e del circo di veline che all’epoca impazzò anche da queste parti, convintosi miracolosamente, come folgorato sulla via per Tunisi (dove lo avevano rispedito), che no, che Rosa e Olindo non potevano avergli ucciso il figlio, e che forse, chissà, altrove la Procura di Como avrebbe dovuto cercare il suo uomo nero.

Frigerio no. Frigerio seppe reggere miracolosamente, smentendo l’idea che, in fondo, tutto abbia un prezzo. Ha saputo sopportare sempre, trincerandosi dietro l’energia di quella sua deposizione solida e disperata. Ha saputo sostenere il peso del sospetto, quello di chi - incapace di aggirare altrimenti la forza delle sue convinzioni - ha cercato di farlo passare per un visionario, un testimone squinternato e inattendibile, reso cieco dal dolore, senza indovinare la sconfitta ineluttabile al cospetto d’un uomo che, a se stesso, aveva giurato di onorare la vita fino all’ultimo respiro, perché con lui anche Valeria potesse sopravvivere, e perché alla fine prevalesse la verità.

In fondo è questa la sua lezione migliore.

La vita, ci hanno insegnato Mario e i suoi occhi chiari, torna sempre. Torna lassù, da qualche parte, accanto a quella ragazzina che a 16 anni gli rapì il cuore, torna accanto al piccolo Youssef, a Raffaella e alla sua mamma, ma torna anche da queste parti, ogni santo giorno, quando il sole si rimette al suo posto. E ci ricorda che vivere è prima di tutto un dovere.

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