Il no al golpe
vittoria amara

È ancora presto per capire con certezza quello che è successo in Turchia. Ma c’è un chiaro punto fermo. Scendendo nelle strade a migliaia, i turchi hanno detto di fatto no al golpe militare contro Erdogan. E non si è trattato solo dei sostenitori del partito islamista Akp, il partito di Erdogan che dal 2003 regna incontrastato in Turchia. Non a caso, come mi fa notare la collega Emel Akçali, politologa turca della Swansea University, la città che ha visto il maggior numero di manifestanti sfidare il coprifuoco imposto dai golpisti è stata Smirne, roccaforte dell’opposizione contro il potere autoritario di Erdogan. Questo è un segno forte che la Turchia è cambiata. Nel corso della sua storia republicana, il Paese ha vissuto diversi golpi militari, all’interno di una lotta tra destra e sinistra, alimentata durante la Guerra Fredda dalla sua delicata posizione geopolitica, al confine con l’Unione Sovietica. In tutti questi casi, una fetta della popolazione aveva partecipato ai golpe. Venerdì no, nessuno, né tra la popolazione né tra i leader partitici dell’opposizione, si è schierato a favore del tentato golpe. È questa la cifra nuova che vive oggi la Turchia. In qualche modo, si può dire che la democrazia oggi in Turchia è forte. Eppure quest’affermazione stride con quanto il Paese ha vissuto negli ultimi anni sotto il governo di Erdogan. Tradizionalmente, infatti, dalla sua istituzione repubblicana, la Turchia è stata sempre paese secolare, imbevuto dei principi laici e moderni ispirati da Mustafa Kemal, detto “Atatürk” (padre dei turchi). Con l’ascesa al potere di Erdogan e del suo partito islamista Akp, questi principi sono venuti gradualmente meno e così i suoi sostenitori. Non certo per volontà loro, ma per la campagna di epurazione condotta appunto da Erdogan, che, invocando un possibile complotto contro di lui e il suo governo, a partire dal 2008 ha di fatto spedito in carcere centinaia di oppositori politici, intellettuali, accademici, giornalisti e militari. Solo l’anno scorso le prove contro queste persone sono state giudicate infondate dalla magistratura. Ma nel frattempo, il giro di vite di Erdogan si è fatto sentire su tutta la società, con censura sia sugli organi di informazione sia sui social media. Da società secolare, appunto, la Turchia si è gradualmente trasformata in società sempre più autoritaria, ad impronta religiosa e conservatrice. Eppure, sotto Erdogan, il Paese ha vissuto un’importante crescita economica. Erdogan ha aperto agli investimenti esteri (arabi in gran parte), modernizzando le città e facendo entrare la Turchia tra le venti più importanti economie al mondo. Istanbul oggi è un hub delle comunicazioni mondiali. Non sorprende quindi che nelle ultime elezioni abbia vinto di nuovo, staccando di gran lunga ogni altro partito. Ma questo, ad un prezzo: la continua lotta contro il Pkk curdo, usata artatamente da Erdogan per mostarsi come l’unico protettore della patria; gli ambigui rapporti con lo Stato Islamico (sempre in funzione anti-curda); e appunto la censura e delegittimazione di ogni voce contraria al suo operato. Ecco perché nel comunicato diramato dai golpisti si leggeva che il loro intento era quello di «restaurare in Turchia lo stato di diritto, le libertà civili e la democrazia». Ma la democrazia non si può restaurare bombardando il Parlamento – un atto simbolico di gravità enorme, visto che mai, in ogni golpe passato, la Grande Assemblea di Ankara era stata colpita. Questo i turchi lo hanno capito e per questo sono scesi nelle strade e nelle piazze a migliaia. La loro vittoria, però, ironia della sorte, avrà con ogni probabilità un amaro risvolto. Da oggi Erdogan si sentirà ancora più legittimato ad inasprire la stretta contro ogni opposizione. Se venerdì è stato il giorno della vittoria della democrazia, speriamo domani non ne diventi vittima involontaria.

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