Il rischio della nostra cecità
a occhi aperti

Cancellare la persona che ami. Rimuoverla. Azzerarla. Farla sparire dalla tua coscienza. A tua insaputa. Senza saperlo. Senza accorgertene.

Ci sono poche notizie più sconvolgenti - e al contempo più pedagogiche - di quella di un papà che dimentica in auto la sua bimba di un anno, morta di caldo e disidratazione dopo sette ore di agonia sotto il sole. La tragedia è avvenuta a Pisa e, come è ben noto alle cronache, si tratta di un evento che ritorna ciclicamente in Italia e in ogni parte del mondo sviluppato. Eh sì, perché questo è un frutto specifico della nostra civiltà: altrove i bambini hanno modi molto più tradizionali e ampiamente consolidati per perdere la vita. E non è neppure irrilevante sottolineare il fatto che tutti - praticamente tutti - i genitori responsabili di questo tipo di morte del proprio figlio non siano sbandati o pazzi o tossici o depressi cronici, quanto invece persone esemplari nell’ambito familiare e generalmente provviste di profili sociali e professionali specchiati. Una decina di anni fa ci fu un episodio del genere anche nella Brianza lecchese che colpì un’insegnante, una madre esemplare, una catechista dell’oratorio. E questo aggiunge sgomento allo sgomento.

E ogni volta che accade, ci poniamo tutti la stessa identica domanda. Come è possibile? Come è potuto succedere? Cosa significa questo buio, questo ritmo asincrono della mente? Certo, da ieri è tornata a infuriare la polemica sulla mancanza di sensori di allarme sui seggiolini per le auto e sul fatto - questo davvero imperdonabile - che una proposta di legge per adeguare le norme di sicurezza giaccia inerte da anni in Parlamento. E’ un tema importante. Ma non è quello dirimente. Quello decisivo. Il punto, quello vero, è trovare una ragione. Gli esperti di psicologia cognitiva hanno qualificato questa sindrome con il termine “amnesia dissociativa”, un meccanismo psicologico che spezza la coscienza dell’individuo e gli impedisce di ricordare cosa sia accaduto nell’arco delle ultime ore. Una sorta di vuoto, di buco, di voragine della razionalità e della coscienza che ha fatto credere al povero padre pisano di aver effettivamente portato la sua bambina all’asilo - e di quello era convinto, è questa la cosa che fa andare fuori di testa: ne era convinto! - mentre invece l’aveva lasciata sul seggiolone, abbandonata, sola, destinata alla più insensata delle morti. Uccisa dal suo papà.

E’ un blackout del cervello. Uno stop - sulle cause ci sono pochi dubbi - causato dall’eccesso di stress. E’ proprio per questo che si tratta di una roba tutta nostra, un parto del nostro stile di vita, del nostro stare al mondo, del nostro rapporto con la realtà e con l’esistenza. Ora, naturalmente, non dobbiamo scivolare dentro una grottesca polemica terzomondista o pauperista che individua in questo evento l’ennesimo segno dello sfascio di una società sbagliata dalle fondamenta che va quindi cambiata, stravolta, abbattuta eccetera eccetera, perché, nonostante tutto, tali e tante sono le conquiste che lo sviluppo ci ha portato in dote. Né tanto meno bisogna amplificare all’eccesso la questione: una tragedia di queste dimensioni ha una possibilità su un milione o forse su dieci milioni o anche di più di accadere a qualcuno di noi.

Ma questo non cancella il tema. Come è possibile che lo stress ti faccia dimenticare la cosa più importante che hai? Sarebbe logico che ti portasse a rimuovere i contorni, i dettagli, le subordinate, tutto quello che vale poco o nulla, per farti invece concentrare solo su quello che conta. E invece no. Paradossalmente, un po’ come le depressioni post parto che molto spesso spingono le madri a fare del male ai figli piccoli, il nostro esaurimento nervoso quotidiano, il nostro stress serializzato, la nostra ansia da esseri multitasking obbligati a reggere ritmi forsennati dettati da dinamiche familiari, sociali e professionali competitive e spesso alienanti porta a colpire inconsciamente proprio chi si vorrebbe proteggere. E’ un pericolo da cui nessuno può sentirsi immune, è un segnale terribile, urticante, rivolto a tutta la società ed è un invito anche in questo caso a non giudicare con superficialità gli altri. Proviamo a pensare un attimo alle nostre vite. Niente di che, se vogliamo essere onesti. Niente di particolarmente speciale. Le solite cose. Le solite balle. Le solite facce. La solita noia serpeggiante. Eppure, tutte queste esistenze sono pervase da una sottile ansia, una nevrosi acuminata e implacabile figlia di infiniti impegni, obblighi, convenzioni, ipocrisie, frustrazioni che ti ingabbiano dentro schemi infrangibili dai quali non si può scappare e dai quali si viene via via sempre più sottomessi. Il criceto sulla ruota. E mentre si corre, ci si concentra sulla corsa. E mentre ci si concentra sulla corsa, ci si dimentica. Ci si dimentica del resto. Ci si dimentica degli altri. Di tutti gli altri. Soprattutto di “quegli” altri, che invece dovrebbero rappresentare l’unico vero il motivo per il quale corri tutto il giorno.

Nessuno di noi ha vissuto l’esperienza del papà di Pisa e di tutti gli altri suoi compagni di sventura e non si può neanche lontanamente immaginare cosa potranno essere i prossimi giorni, i prossimi mesi, i prossimi anni per questi esseri umani destinati a sopravvivere a se stessi e a tentare di elaborare un lutto non elaborabile. Ma tutti possono capire quanto quel germe, quel tarlo sia patrimonio comune. Cultura condivisa. Nemesi esistenziale. Malattia sociale talmente estesa da farci pensare quanto sia sorprendente che di tragedie del genere non ne avvenga una alla settimana. E’ questo il dirupo su cui camminiamo ogni giorno, questa la nostra cecità a occhi aperti in mezzo a infinite persone che non vediamo. Cerchiamo di ricordacelo la prossima volta che incrociamo, distratti, il volto di chi ci vuole bene.

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@DiegoMinonzio

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