La Commedia umana
davanti alla morte

Leo Longanesi - che era un genio - aveva colto con tale acutezza e perfidia la vanità di Curzio Malaparte – che era uno genio pure lui - da averlo immortalato in un aforisma memorabile: «Malaparte è così egocentrico che quando va a un matrimonio vorrebbe essere la sposa e quando va a un funerale vorrebbe essere il morto».

Scontro tra titani, d’accordo, figli di un’epoca mitica e tragica, incomparabile alla nostra melma quotidiana. Ma pur affondando nelle miserie e nella meschinità, la lezione del grande intellettuale resta valida non solo nei confronti dell’autore de “La pelle”, ma anche di tutto quell’infido, servile e fanghiglioso sottobosco culturale che ammorba i nostri media e i nostri canali di formazione del cosiddetto spirito del tempo. E non c’è nulla di meglio di una morte eclatante, della scomparsa di una celebrità, di un gigante dello showbiz, di un vip, insomma, per dare la stura a uno dei più devastanti fenomeni psichiatrici, a una delle più sconvolgenti tracimazioni della frustrazione umana a cui si possa aver occasione di assistere in vita.

L’ultimo episodio è pedagogico: la morte di David Bowie, una figura che per importanza e rivoluzionarietà nel mondo della musica e del costume non è inferiore a quella di John Lennon e che, quindi, è stata giustamente celebrata con l’attenzione, l’approfondimento e lo scavo degni di un protagonista di queste dimensioni. Ma se andate a guardare con un po’ di malizia le biografie, le recensioni, i commenti, gli speciali tv e, soprattutto, i post e i tweet che galleggiano nel fantasmagorico mondo digitale - la vera suburra dell’umanità, altro che comunicazione 2.0 - sentirete levarsi dalla caverna del web un suono inconfondibile, avvolgente, ipnotico, mille miglia lontano da quello delle chitarre e delle tastiere del grande artista inglese: la melodia del trombone.

Il trombone è un personaggio immortale della commedia umana, si annida tra le pieghe di ogni comunità e lì alligna, grufola, s’infratta, si gonfia come un rospo nelle notti d’estate, tutto tronfio ed egagro della propria nullità e tutto verdognolo a causa del suo infinito bovarismo e così, visto che è privo di una personalità definita, novello Zelig, si modella su qualsiasi evento accada, grande o piccolo che sia, per diventare concavo se quello è convesso e convesso se quello è concavo, e poter così succhiargli linfa e sangue e umori e poi masticarlo, ruminarlo e trangugiarlo fino a farlo diventare parte di sé.

La morte di Bowie, in questo senso, si è rivelata emblematica. L’artista è stato via via relegato nell’angolo della pagina per far invece emergere il sapido aneddoto che riguardava non tanto il protagonista della vicenda quanto l’autore del pezzo, una sua ponderata riflessione, una sua acutissima epigrafe, un suo irresistibile calembour, un suo segreto dramma personale che tutti noi non possiamo non conoscere. E così, sullo spartito, si squaderna una carrellata meravigliosa: «Io Bowie lo conoscevo bene», «Quella volta che Bowie mi confidò», «Io e Bowie eravamo della stessa generazione», «Bowie amava i futuristi italiani, proprio come me», «Io ho recensito Bowie quando tutti lo spernacchiavano», «Quella volta che io e Bowie abbiamo passato una notte di follie dentro un wigwam dei Chiricahua», «Quando c’era lui, caro lei», «Come Bowie non ne fanno più, signora mia», e via straparlando a nastro sui media di qualsiasi genere e natura.

E tu, povero gonzo, te li bevi, questi narcisi da quattro soldi, questi boriosi da racconto di Cechov, questi quaquaraquà del coccodrillo, questi sopracciò dell’onoranza funebre, e ti poni la più ingenua e sprovveduta delle domande. Perché? Perché siamo fatti così male, perché siamo così piccini e meschini e microscopici nei nostri sentimenti, nelle nostre pulsioni, nelle nostre aspettative, sempre e solamente inchiavardate al nostro misero e patetico ego senza mai un balzo, un volo, un’accettazione serena della nostra nullità rispetto all’eterno fluire delle cose? Perché abbiamo così paura del niente da doverlo riempire sempre - anche nei momenti meno opportuni - con il nostro ridicolo io? Perché siamo fatti così? Cos’è che ci manca? Perché quello là ci ha tirato questo scherzo?

E non pensiate che sia un malcostume che riguardi solo la gente del mondo che conta. Ogni funerale ha il suo trombone, ogni paese - anche il più piccolo - il suo vanesio che si fa largo e prende la scena e fa il saputo, il compreso nel ruolo e pontifica e commenta e glossa e cicisbeggia e si dimentica che non è lui l’anima della festa, quello è il giorno della persona che non c’è più, è quello il momento topico, il grande rito di passaggio, la sentenza definitiva della sua di vita, non della nostra, e tu, noi, tutti quelli che sono ancora al di qua dello steccato dobbiamo solo starcene zitti e muti, coltivare e condividere il dolore, quando è sincero, o testimoniare il rispetto con una presenza che non è solo forma, perché in certe occasioni, e queste in particolare, la forma è sostanza.

In fondo, ogni corteo funebre - sia il più celebre, sia il più anonimo - non è altro che una perfetta metafora della natura degli uomini. I parenti stretti e gli amici disperati in testa, i conoscenti affezionati affranti a seguire, i colleghi e i conoscenti saltuari formalmente composti, i frequentatori occasionali che già parlano di lavoro, del governo che è una vergogna, di quel mascalzone del capoufficio e del prossimo turno di Europa league e i cialtroni in fondo, degna chiusura di una pièce che va avanti da millenni e che così è, né cambia stile. Il vento fa il suo giro, un Bowie (o un signor Giuseppe) ne cancella un altro, un fanfarone racconta che lui sì che lo frequentava assai e gli uomini, intanto, continuano a strisciare sulla superficie della terra, avanti e indietro, fino a quando il loro patto con il creatore sarà concluso e il loro nome cancellato per sempre dal libro della vita. E quando nessuno potrà dire che ci conosceva bene.

[email protected]

@DiegoMinonzio

© RIPRODUZIONE RISERVATA