La fine amara
di un uomo invisibile

Cancellarsi. Negare totalmente la propria identità, farla sparire nel modo più atroce e spettacolare affinché di un uomo non restino che pochi brandelli carbonizzati, senza un volto né un nome, una storia, i suoi amori e i suoi dolori, la somma di una vita comunque vissuta, con l’interesse maturato di qualche rara gioia.

Hamid era malato e senza lavoro, e assai spesso le due cose si uniscono in un abbraccio mortale, perché l’una condiziona l’altra e l’inasprisce, la mente va continuamente a battere sul denaro che manca per mangiare, coprirsi, pagare affitto e bollette, e ogni quotidiano cavillo burocratico appare ancor più insormontabile, angosciante. Così le forze vengono a mancare, sparisce la volontà di reagire e il corpo incomincia ad appassire, a chiedere disperatamente aiuto prima di soccombere.

L’uomo arrivato dal Marocco aveva 47 anni, il pieno della maturità, l’avevano accompagnato speranze e passioni, forse una compagna, di certo la voglia di cambiare, di conoscere un mondo diverso, una cultura lontana dalla sua ma che forse la solidarietà degli uomini gli avrebbe avvicinato e fatto comprendere.

Perché Hamid Arafi alla fine era parte della comunità, viveva a Cislago, lavorava e parlava la lingua del lago, ma era rimasto un invisibile, un immigrato come un altro, un operaio come un altro, una persona di cui non ci si occupa né preoccupa se non in casi estremi, quelli di una malattia o di una morte violenta.

Braccia da lavoro, come ce ne sono tante, uomini soli che tentano di badare a se stessi senza ferire altri uomini, cercando una vicinanza difficile, una compenetrazione di stati d’animo oggi sempre più lontana, soprattutto per chi è in difficoltà prima psicologica che materiale.

Chissà chi avrà incontrato Hamid nel treno che da Saronno lo portava a Como quel 19 febbraio in cui lucidamente aveva deciso di recidere la propria vita, se avrà scambiato qualche parola, anche soltanto per mostrare il biglietto, o se qualcuno gliel’avrà rivolta, guardandolo negli occhi. Uno straniero, solo, con uno zainetto, che fuggiva da se stesso e dalla sua disperazione, dalla depressione che l’aveva assalito dopo la scoperta di una malattia degenerativa alle gambe, con la prospettiva di finire inchiodato su una carrozzella.

Un peso, per sé e per gli altri, «un problema» per il quale «chiedere perdono», come Hamid ha lasciato scritto su un biglietto, ritrovato nello zainetto abbandonato su una panchina, vicino al luogo del suicidio. Scomparire, senza lasciare traccia. Con dignità. Uccidendo con rabbia il suo corpo che l’aveva tradito, rendendolo inabile e inutile, ancora più invisibile agli occhi di un mondo troppo veloce e talvolta codardo.

La vita, Hamid, l’aveva salutata da tempo, perché la depressione è già una morte, lenta e sfinente, lui cercava soltanto il modo per sparire perché non voleva neppure un funerale, tanto nessuno l’avrebbe seguito. Per un capriccio del destino, o forse per una lucida scelta, si è ucciso davanti al Tempio Voltiano, simbolo della luce e dunque del vivere, sparendo, come desiderava, avvolto in una vampa di fuoco.

Dopo tre mesi gli è stato restituito il nome, perché per fortuna esiste ancora la pietà.

© RIPRODUZIONE RISERVATA