La politica via Twitter
fa morir dal ridere

Giusto ieri mattina, chi scrive questo pezzo ha partecipato alle premiazioni dei migliori slogan ideati dagli studenti di alcune scuole lariane sul tema della lotta al cyberbullismo.

L’obiettivo degli organizzatori è benemerito. Aiutare i nostri ragazzi ad avere un rapporto sano con i social media e a comprendere quanto sia profondo e dirimente il tema della responsabilità individuale nel momento in cui chiunque ha tra le mani - per la prima volta nella storia dell’umanità - una bomba atomica che può distruggere una persona con un click. E durante gli interventi dei vari relatori si è ribadito correttamente quanto i più giovani siano esposti al potere demiurgico, insinuante, diabolico del flusso ininterrotto del mondo digitale, quanto sia facile restare impigliati nella rete delle relazioni virtuali e della loro fascinazione, quanto i ragazzi siano sprovvisti delle protezioni e degli antidoti prodotti dall’esperienza, dal tempo, dalle letture, dalla saggezza sedimentata dall’aver vissuto tanto di più e dall’avere lunga esperienza del mondo che ci circonda e delle dinamiche sociali che lo innervano e bla bla bla.

Ma non è vero. Anzi, è vero il contrario. I veri fenomeni regressivi, il vero infantilismo congenito e strutturale e, soprattutto, il vero nonnismo, il vero cyberbullismo, il vero leonismo da tastiera che schiuma bava e bile e bifolcaggine villanzona è monopolio indiscusso dei quarantenni e dei cinquantenni, fascia d’età infida e infingarda all’interno della quale la comunicazione digitale ha creato derive a tratti spaventose - in campo calcistico, ovviamente, ma anche in quello razziale e sociale - a tratti grottesche. E, come da miglior tradizione, tra le categorie che producono tutti i giorni gli esiti più spassosi c’è senza dubbio quella dei politici, anche di altissima sfera, sui quali non a caso ha costruito le sue fortune una trasmissione molto di sinistra e molto snob, ma onestamente divertentissima, come “Propaganda Live”, in onda ogni venerdì su La 7, che ha come pezzo forte la classifica settimanale dei migliori tweet scritti della nostra classe dirigente. Una roba da tenersi la pancia dalle risate.

Ora, voi riflettete un attimo sul tweet scritto da Matteo Salvini dopo l’incontro tra il premier incaricato e il presidente della Repubblica e la conferma del veto di Mattarella sul nome di Paolo Savona come ministro dell’Economia. “Sono molto arrabbiato”. Tutto vero. Ha scritto proprio così. Ora, mettete in fila questi tre fatti: Salvini che scrive “Sono molto arrabbiato”, Di Maio che qualche minuto dopo ci mette un like, Renzi che twitta “arrivo, arrivo!” proprio mentre stava presentando a Napolitano la sua lista dei ministri. Salvini. Di Maio. Renzi. Tre bimbiminkia (nel gergo di noi giovani si definisce così chi interviene sul web in modo molesto e infantile…) ai massimi vertici della politica italiana. E questo non vuole essere un discorso da vecchio barbogio rancoroso che rimpiange i bei tempi andati di Carlo Codega e delle convergenze parallele e di Santa Dorotea e del centralismo democratico del Pci e delle bombette del giolittismo e del ritorno allo Statuto Albertino e del generale La Marmora e del quando c’era lui, caro lei, quanto invece tornare al tema di come i social media, affidati agli adulti, non abbiano affatto alzato il livello del dibattito e aumentato il livello della trasparenza, della condivisione e della democrazia, quanto invece inflitto una svolta ridicola, ma anche pericolosa, alla comunicazione politica.

È evidente che questa non può più passare dai cablogrammi e dai dispacci all’agenzia Stefani, essendo già trasmigrata in larga parte sui profili social - e non può che essere così -, ma questo non può e non deve prevedere la sparizione dei contenuti e della forma istituzionale, che equivale sempre alla sostanza. Altrimenti non c’è il dibattito, ma la canea. Non c’è l’Agorà, ma la Suburra. Non c’è la democrazia, ma la demagogia da bar della Pesa. E non è manco questione di premier più o meno autorevoli e di ministri più o meno competenti, che di servi, incapaci, tromboni e traffichini ne abbiamo così visti passare da Palazzo Chigi e su questo sarebbe meglio che i giornaloni dell’establishment la piantassero di fare la morale, perché tali e tante ne hanno combinate negli ultimi trent’anni i cosiddetti governi autorevoli. La questione è l’utilizzo assennato della comunicazione digitale, che magari porterà anche consensi, ma che ha le stigmate dell’osteria e del Bagaglino, tra dirette facebook su uno che falcia il grano a torso nudo, selfie su un altro che invade la Polonia e post santoriani sull’Uomo del Popolo che mangia gli spaghetti con le mani.

Ma, insomma, è possibile che la rivoluzione del secolo, la bomba fine di mondo che sta cambiando l’antropologia degli esseri umani serva solo a propagandare ai quattro venti questa fuffa, questo cascame, queste caricature? Tanto rumore per nulla? Solo questo di tanta speme oggi ci resta? Ma chi ci crede ai roboanti proclami sulla palingenesi del Belpaese? Ma chi ci credeva al #cambiaverso, alla #lavoltabuona del fenomeno di Rignano? Ma chi ci crede alle meravigliose sorti e progressive del Contratto per il governo del cambiamento (datevi una letta ai capitoli su scuola, giustizia e infrastrutture e fatevi una crassa risata, per cortesia)? Ma chi ci crede alla rivoluzione gialloverde, che dopo mesi di proclami in stile Lenin alla stazione Finlandia sul potere al popolo e mai più tecnocrati e premier non eletti ci rifilerebbe come presidente del consiglio il più tecnico dei tecnici, naturalmente non eletto, e come ministro all’economia un uomo di brillantissimo profilo che però - tra governo Ciampi, Confindustria, Mit, banche, Ocse e Aspen Institute - più potere forte di così non si può?

Misteri. Ma forse neanche tanto, se si pensa a quanto ancora una volta avesse ragione quel genio di Longanesi: «La rivoluzione in Italia non si può fare perché ci conosciamo tutti».

@DiegoMinonzio

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