Le paratie di Como,
sindrome dello stagno

Si avvicina il momento che dovrò spiegarlo ai nipoti e devo farmi trovare preparato. Già sento la vocina salire innocente: “Perché qui davanti al lago c’è tutto questo ferro (con la “f” minuscola, s’intende...)?”. Il problema è che MAI potrò rispondere in modo concreto, usare le parole che ai bambini piacciono tanto perché lontane dai bluff degli adulti: bosco, casa, sassi... Il disastro delle paratie è una storia che non si può raccontare. È una sceneggiatura che fa acqua da tutte le parti... ops! E’ una vicenda su cui ti incarti persino a maledirla. No, dovrò essere onesto: dirò “Non lo so”.

Però almeno a me stesso, che amo tanto la filosofia... possibile che non sia in grado di inventarmi un perché? Per dirla alla Vasco (noto peripatetico): voglio trovare un senso a questa storia anche se questa storia un senso non ce l’ha.

E allora provo a concentrarmi sull’origine di questa vicenda, anzi l’origine di tutte le cose: l’acqua di Talete. Anzi, l’acqua dei comaschi. Che acqua è la nostra acqua? L’acqua che ci bagna da una vita, in cui ci piace veder riflesse le colline dorate al tramonto, l’acqua che puzza e che però beviamo, l’acqua che ci commuove ma che stiamo torturando in una gabbia... che acqua è? E se si nascondesse nel suo composto la vera risposta?

Per la prima volta mi viene in mente la cosa più ovvia: la nostra acqua è ferma, nasce già così, prigioniera. L’acqua degli altri scorre, sobbalza, s’agita, sgorga... La nostra sta. Il nostro lago, il ramo più bello, è in realtà uno stagno. L’atavica distanza dai lecchesi è tutta qui. Da loro esce un fiume, da noi entra un rivolo. Una differenza che vale un’ulteriore citazione filosofica. Da noi è lo spettacolo dell’Essere, immobile ed eterno. Da loro è il trionfo del divenire. Insomma, per chi la capisce: Parmenide abita a Como, Eraclito a Lecco.

Nello stagno si nasconde l’ossessione di conservare la stasi: l’essere è e non può non essere. Ogni cambiamento è un dramma. Guai a rompere gli equilibri. Appena ti muovi, sei da qualche parte che non è più quella dove eri prima: dici poco? Succede che sei contro rispetto a chi prima ti guardava di fianco. Sei diventato un pericolo, a prescindere. Lo stagno è una superficie che ricorda quella di una lastra. Il peso la può infrangere. Chi si muove sullo stagno mette a repentaglio l’incolumità altrui, costringe a fastidiosi riposizionamenti per bilanciare un equilibrio spezzato. Una noia. E soprattutto una minaccia.

Gli abitanti dello stagno, però, una mattina si sono svegliati con una tonnellata sulla testa. Che fare? Dopo migliaia di giorni pare che stiano ancora trattenendo il respiro. La lastra potrebbe cedere. Poco importa che in realtà tutto, ma proprio tutto, si sia già rotto. Prevale l’ossessione della stasi. L’essere è e non può non essere. Anche quello delle paratie.

L’acqua che non può scappare è però anche uno specchio. È una superficie che incanta se intorno le fa corona una natura da mito antico, un abbraccio di colline superiore ad ogni fantasia. Ci si guarda dentro e si finisce per immaginarsi semidei. Anche se ci si chiama con cognomi da ragionieri. Nello stagno c’è il tranello. E chi ci è caduto ora sa che cos’è il male.

La sindrome dello stagno... La turbe autolesionista, che ci ha resi ciechi davanti a una bellezza che era solo da accarezzare, forse potrebbe essere diagnosticata così. È lo stagno ad averci inghiottiti! Come Narciso. Ecco allora cosa potrò dire ai miei nipoti: “Perché è successo? Perché era tutto troppo bello.”

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