’Ndrangheta, un altro filo
lega Como alla calabria

Scordiamoci coppola e lupara. La ’ndrangheta ha imparato a mimetizzarsi. O, almeno, «in Lombardia è sempre più capace di farlo». A dirlo è uno degli investigatori protagonisti dell’operazione della Procura di Como che, all’alba di ieri, ha portato all’arresto di 34 persone. Sono accusati di aver messo in piedi un sistema di finte cooperative di facchinaggio e pulizia che, per dieci anni, sono state aperte e chiuse senza mai pagare un euro di tasse o di contributi ai lavoratori sfruttati. Sono finiti in cella con l’accusa di bancarotta, false fatture, frode fiscale, ma nessun cenno - nei reati - alla ’ndrangheta.
Eppure l’indagine di ieri è costellata di episodi, circostanze, personaggi che sembrano portare dritti verso i clan calabresi. Ma la ’ndrangheta, in questo caso, è rimasta sullo sfondo. E non è detto che, alla fine, emergerà. Si tratta di una situazione per certi versi inedita, dove un’indagine nata nelle stanze della direzione distrettuale antimafia di Milano è stata poi ceduta alla Procura di Como. Che, dal canto suo, non ha fatto altro che applicare una vecchia regola, sempre buona: follow the money.

Un aspetto forse non così immediato, ma significativo, dell’inchiesta condotta dalla Guardia di finanza di Como e dalla squadra mobile di Milano, è il ruolo ambiguo di molti indagati. Insospettabili che si mettono in affari con personaggi già chiacchierati. Ex politici locali che accettano di sporcare il proprio nome amministrando società destinate a fallire. Imprenditori che offrono il proprio aiuto a un sistema chiaramente sospetto. Un’ambiguità che si giustifica soltanto in un modo: follow the money.

Non si spiega altrimenti il motivo per cui un commercialista molto noto nella città di Como, ancorché chiacchierato per la quantità di società riconducibili al suo studio come Bruno De Benedetto, accetti di entrare in società con un personaggio quale Massimiliano Ficarra dopo che di quest’ultimo già le cronache avevano parlato per un precedente giro di cooperative fittizie. E dopo che la Prefettura di Milano ha emesso, a carico del ristorante a lui riconducibile, un’interdittiva antimafia. Follow the money, dunque. Non si spiega altrimenti il motivo per cui un vecchio sindaco democristiano di Lomazzo accetti di amministrare oscure e traballanti cooperative tutte destinate a chiudere i battenti (e a non presentare mai una denuncia dei redditi).

Finanzieri e poliziotti, a questo giro, hanno svelato le ambiguità con una doppia strategia. La prima - appunto - follow the money (cosa che le fiamme gialle hanno fatto in maniera esemplare). La seconda, la capillare conoscenza della geografia criminale da parte dei detective della polizia che sanno benissimo che nomi come Ficarra, Tagliente, Iaconis sono legati agli ambienti della criminalità calabrese.

Eppure la ’ndrangheta è, in questa circostanza, soltanto un’ombra. Un sospetto. Una paura sussurrata. L’inchiesta stessa, a voler ben vedere, ha rischiato di non nascere neppure: perché, presi singolarmente, i debiti delle varie cooperative fittizie non sono tali da suscitare particolare allarme o l’interesse degli inquirenti. E infatti da dieci anni nascevano e morivano. E nascondevano soldi al fisco. E producevano guadagni assurdi per gli amministratori e i prestanome.

La criminalità cambia pelle. Si mimetizza. Cerca nuove strategie. La pigrizia - lo ha dimostrato l’operazione di ieri - non può certo far parte del bagaglio della giustizia italiana. Nelle piccole ingiustizie si annidano pericoli e i semi di questa nuova e silenziosa ’ndrangheta.

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