Nella fine una dolcezza
che non immaginiamo

In una pagina magistrale e terribile di “Delitto e castigo”, Rodion Raskol’nikov incarna lo sgomento che annichilisce gli uomini posti di fronte alle verità ultime: «Dove ho letto che un condannato a morte, un’ora prima di morire, dice o pensa che se gli toccasse vivere su un’alta cima, su una roccia, su di uno spiazzo tanto stretto da poterci posare solamente i suoi due piedi - e intorno a lui ci fossero degli abissi, l’oscurità eterna, un’eterna solitudine e un’eterna tempesta - e dovesse rimaner così, in un arscin di spazio per tutta la vita, per mille anni, in eterno, preferirebbe vivere in quel modo che morire subito? Pur di vivere, vivere, vivere! Che verità! Che verità! Signore! È vile l’uomo… Ed è vile chi per questo lo chiama vile».

Riflessione profondissima. Cognizione del dolore. Vertigine dello smarrimento di chi, privo della luce salvifica della fede, non si capacita del dilagare del male sulla terra. Del suo senso. Tema portante di tutta l’opera di un autore gigantesco come Dostoevskij e che però sembra messa in dubbio da un magnifico articolo scientifico pubblicato un paio di giorni fa su “Repubblica”, quasi a dimostrazione che, nonostante la fuffa che li sommerge, ogni tanto i giornali riescono ancora a offrire squarci di intelligenza, di sensibilità, di visione che ti fanno pensare che qualche utilità noi scribacchini forse ce l’abbiamo ancora, nonostante avanzino a plotoni affiancati i tempi del disimpegno, della superficialità, dei clic e degli scroll compulsivi che tutto ruminano, tutto trangugiano, tutto banalizzano e tutto evacuano nel giro di pochi minuti.

In una sezione molto interna del quotidiano romano, veniva illustrato uno studio firmato dai medici di un hospice di Buffalo, pubblicato sul “Journal of palliative medicine” e dedicato ai sogni dei malati terminali. I sogni ricorrenti, ossessivi, premonitori, addirittura, dei malati terminali. Argomento poco carnevalizio, direte voi, e come darvi torto, ma vale davvero la pena cercare di capirne un po’ di più. I ricercatori hanno intervistato cinquantanove pazienti senza più speranze di guarigione registrando i due temi portanti del loro universo onirico: l’amore e il perdono. L’amore è presente in tutti i sogni, quello offerto, quello ricambiato e quello rifiutato, quello che ha regalato gioie e passioni, ma anche quello che ha inflitto i dolori più intensi, ingiusti e inestinguibili. Nei loro sogni, altro dato ricorrente, i malati hanno sempre ricevuto rassicurazioni di essere stati dei bravi genitori, dei bravi figli e dei bravi lavoratori, si sono preparati a viaggiare - in uno di questi la famiglia finalmente riunita andava alla ricerca del Grand Canyon - avendo i loro cari più stretti come guida verso il mistero. E tornano sempre i figli, in quei momenti, soprattutto quelli con i quali si è spesso litigato o dai quali si è stati abbandonati ma ai quali, alla fine, tutto si perdona: «I miei ragazzi sono il più gran successo della mia vita», ha risposto un ottantenne con un tumore all’ultimo stadio pochi giorni prima di morire.

A dir la verità, il tema non è nuovo, perché i sogni, le visioni, i vaticini dei morenti affascinano e stregano da sempre le culture di ogni latitudine, tanto da caricarli di significati magici, esoterici e da vederli così riprodotti nei testi religiosi, in quelli letterari, nelle opere d’arte di ogni civiltà, fino ai saggi antropologici e psicoanalitici e che sono stati riassunti - come viene giustamente ricordato nel bell’articolo in questione - da quel genio di Orson Welles, che costruisce tutto lo script di “Quarto potere” - forse il capolavoro assoluto della storia del cinema - nel misterioso sussurro “Rosabella” proferito dal protagonista in punto di morte. Rosabella è il nome dello slittino con il quale stava giocando da bambino quando venne strappato alla famiglia e la ferita pulsante di quel trauma segnerà tutta la sua vita avida di successi per poi riemergere nel suo ultimo istante. Tutto torna all’origine.

Ma se la questione poggia su una vasta letteratura, e magari offre lo spunto a qualche spiritosone per ironizzare sui deliri dei moribondi e sui vaneggiamenti di qualche medico stregone, l’aspetto confortante e, a pensarci bene, dolcissimo dello studio dei dottori di Buffalo è che nei sogni di questi malati che stanno morendo, che sanno - almeno fino a quando sono coscienti - di stare morendo e che grazie ai sedativi non soffrono più o patiscono sempre meno il dolore fisico, non c’è mai spazio per la paura, il terrore, l’abisso del vuoto e del nulla. E questo sia nei credenti, per i quali dovrebbe essere a prima vista più logico, così come nei confusi, negli agnostici e negli atei. Le loro visioni oniriche sono sempre ovattate e malinconiche, una specie di lungo addio, una ricomposizione delle fratture della vita, uno sguardo comprensivo, composto e pacificato sull’eterno fluire delle cose, una resa dei conti con l’esistenza che riesce finalmente a mettere da parte - almeno nel momento del passaggio - i rancori, i livori, le piccinerie, le meschinità, le ansie, le risibili, ridicole, grottesche, amarulente rivalse e vendette sugli altri attori della commedia umana. Come se già sapessero.

Tutto è compiuto. E tutto è perdonato. Il cervello, esattamente come l’anima, si prepara all’addio in pace. All’abbandono alla provvidenza divina oppure al misterioso perpetuarsi dell’infinito. Proprio come raccontato nell’immagine pedagogica e commovente di quella cinquantenne ormai spacciata che viene visitata nella notte dal fidanzatino dei tempi dell’adolescenza che però, decine di anni prima, aveva infranto quei giorni lieti provocandole un grande dolore. L’amico, deceduto da tempo, le è apparso in sogno, chiedendole perdono, rassicurandola e confortandola, perché aveva sempre saputo che lei era un’ottima persona, e dicendole quello che tutti vorremmo sentirci sussurrare quando verrà il nostro momento: «Se hai bisogno di me, chiamami: io ci sarò».

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