Politica e sanità,
la verità disturba

Telefonate, sms, mail. Urla, accuse e pure l’immancabile minaccia di querela. Niente coma la verità è capace di indignare e far arrabbiare. La reazione veemente di molti camici bianchi all’inchiesta di un cronista attento e scrupoloso dimostra che sulla vicenda della lottizzazione politica nella sanità, questo giornale ha semplicemente fatto il suo dovere. Che è quello di raccontare cosa avviene nei luoghi dove noi e i nostri cari veniamo curati, e spiegare come vengono prese certe scelte. E perché, talvolta, un medico è preferito a un altro per ricoprire il ruolo di primario. Confessiamolo subito: il collega non ha scoperto forme di vita su Marte, ma ha semplicemente dato un nome e un cognome a quella che, da oltre dieci anni, è (purtroppo) una prassi bollata come legale dalla stessa magistratura: la lottizzazione politica della sanità.

Un po’ di storia può aiutare a inquadrare meglio la questione. La notte del 31 dicembre 1994 una giornalista del Corriere della Sera registra una riunione della giunta regionale nella quale i politici si spartiscono le poltrone delle allora Usl.

«Vediamo: 24 al Ppi, 14 alla Lega, 10 a noi, allora il Pds ne ha sette» chiosavano impuniti gli allora membri di giunta sgranando il rosario del Cencelli. Lo scoop giornalistico fece scalpore. Erano anni in cui il Paese - complice l’assenza di facebook - era ancora capace di indignarsi seriamente, e non solo virtualmente. L’inchiesta giornalistica divenne un’indagine penale. E la lottizzazione assunse un nome diverso, sui fascicoli della Procura: abuso d’ufficio. Poi venne il 2002 e con esso la sentenza di assoluzione definitiva di tutti gli imputati: lottizzare non è reato. Spiegarono i giudici: «È evidente il danno per i candidati discriminati e la sua inequivocabile ingiustizia, atteso che la lottizzazione partitica rappresenta una delle ipotesi più eclatanti di strumentalizzazione del potere per fini privati». Parole dure, ma nonostante questo, complice il solito cavillo all’italiana, l’inchiesta finì per sdoganare come lecita quella prassi che aveva tentato di far condannare.

Da allora la spartizione delle poltrone nella sanità avviene sotto la luce del sole. Al punto che da anni sappiamo che il Sant’Anna, dopo essere stato in quota An, è passato alla Lega, attraverso Mentasti prima e Onofri ora. Si fatica a comprendere, dunque, il motivo di tanti strepiti da parte dei vertici della sanità comasca di fronte al puntuale (come sempre) articolo di Michele Sada.

La rabbia, forse, è stata provocata dal fatto che se i grandi capi vengono scelti direttamente dai politici, per i primari ciò non avviene. O, meglio, non dovrebbe avvenire. E questa illusione, soprattutto in un periodo in cui i partiti sono così indigesti agli italiani, è preziosa quanto il mantello dell’invisibilità per Harry Potter.

Da troppo tempo, con la scusa della privacy e della riservatezza, le corsie del Sant’Anna e i corridoi dell’Asl sono diventati luoghi inaccessibili ai giornalisti. Chi viene sorpreso a parlare con un cronista rischia grosso. Un’assenza di trasparenza che sta stretta ai molti professionisti stanchi di non avere alcuna chance di carriera per via di logiche lontane dalle capacità professionali.

Il peccato è originale. Il problema non sono tanto i primari, quanto i direttori. E, prima di loro (guarda un po’) i politici. Va riavvolto il nastro. Fino a quel 1994. Nella speranza di un finale diverso, in cui il migliore è tale anche se non ha tessere di partito. Ah già, ma siamo in Italia. Il Paese dove la verità fa scandalo.

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