Renzi e l’Europa
Tensione sempre alta

Il rapporto tra Matteo Renzi e l’Europa si muove sempre sul filo di un latente nervosismo. Lo dimostra la polemica a distanza sui vincoli di bilancio. Da una parte il Rottamatore che rifiuta «lezioni» e assicura il rispetto del tetto del 3 per cento nel rapporto tra deficit e Pil, dall’altra il «falco» Katainen che respinge la parte del » aestro» e si definisce semplice «interprete» degli impegni assunti dai vari Paesi.

Una disputa non puramente lessicale se si considera che l’Italia nel 2014 dovrebbe in realtà scendere al 2,6 per cento del rapporto deficit-Pil: il finlandese ha fiutato in quel riferimento troppo generico al 3 per cento la possibilità che il nostro Paese voglia utilizzare quelle frazioni di decimale (che equivalgono ad alcuni miliardi) per assicurare la tenuta del quadro economico e la respinge. Proprio mentre la Francia chiede due anni in più (dal 2015 al 2017) per rientrare nella fatidica soglia.

Ma al premier non devono aver fatto piacere nemmeno gli ennesimi appelli di Mario Draghi a riforme più ambiziose e ad affrontare in modo «più determinato» le raccomandazioni della Commissione e della Bce: appelli rivolti naturalmente a tutti ma, con ogni evidenza, in prima battuta all’Italia che sembra restare il grande malato sotto esame. Sono segnali di implicita sfiducia nel nuovo corso renziano e di una divergenza di vedute che difficilmente si ricomporranno con l’impegno comune assunto dai Paesi dell’eurogruppo per una riduzione concertata delle tasse sul lavoro. Il motivo è semplice: innanzitutto gli impegni di riduzione del deficit su base annuale, come ha ricordato il ministro Padoan, erano stati presi in un contesto macroeconomico ben diverso; e poi la riforma del lavoro (il Jobs Act) dovrà superare in Parlamento corpose resistenze da parte dello stesso Pd. In altre parole, il Rottamatore non accetta che Bruxelles e Francoforte facciano finta di non vedere le oggettive difficoltà della congiuntura italiana e dei rapporti politici interni. Ma in fondo lo stesso era accaduto al governo Berlusconi.

Il che riporta al controverso Patto del Nazareno. È ovvio che le cancellerie occidentali non possono permettersi interferenze ora che a guidare la maggioranza è il segretario - premier di un partito che ha conseguito uno straordinario successo alle europee, per di più su una chiara spinta di rinnovamento generazionale. Ma possono non fare sconti sul piano economico proprio quando ce ne sarebbe la necessità e anche la ragione.

Ciò spiega l’irritazione del capo del governo per il caos che si è aperto nel suo partito e anche la preoccupazione per gli scricchiolii che giungono da Forza Italia. La differenza tra le due sponde è che il Pd è comunque in sicurezza e la proposta di una gestione unitaria è destinata a rafforzarlo anche se solo una parte della minoranza dem (quella raccolta attorno al capogruppo Speranza, anche lui della generazione dei quarantenni) finisse per accettarla. Il movimento azzurro è invece percorso da spinte centrifughe: la rinuncia di Antonio Catricalà alla candidatura alla Consulta è ufficialmente dettata dalla volontà di favorire una soluzione «senza strappi’’ (Brunetta). Ma in realtà è soprattutto la presa d’atto del rischio di un naufragio a causa della fronda interna di Raffaele Fitto.

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