Sanremo, la dittatura che spegne il cervello

Uno pensa che la dittatura consista nella privazione della libertà. Nel controllo poliziesco delle vite degli altri. Nel divieto assoluto di fare certe cose e nell’obbligo assoluto di farne delle altre. Nella coercizione. Nella violenza.

Ma non è così. Per quanto tutta la storia del Novecento, il secolo più grandioso e terribile della storia dell’umanità, sia lì a dimostrarlo e la parabola del nazifascismo e del comunismo ne incarni la rappresentazione plastica, non è quella la vera dittatura. Per quanto paradossale possa essere, quello, al netto del mostruoso numero di morti, è un livello di regime primitivo, dozzinale, imperfetto. Perché si basa, appunto, sul terrore, la violenza, la costrizione. Ma queste cose non durano, così come, infatti, non sono durati il fascismo, il nazismo e neppure il comunismo. Da questo punto di vista, insistendo nel paradosso, la metafora scolpita da Orwell nella “Fattoria degli animali” e in “1984” è sì formidabile, ma debole, datata, sorpassata. Quello che ha capito tutto è stato invece Huxley, che nel suo distopico “Il nuovo mondo” ha tratteggiato una società immersa nella totale assenza di preoccupazioni, sana, tecnologicamente avanzata, senza fame, senza guerre, una comunità alla quale veniva dato tutto, concesso tutto, garantito tutto. L’esatto contrario di Orwell.

Ora, è indubbio che viene da ridere al solo pensiero di un parallelo tra il tema della dittatura e quello del Festival di Sanremo, ma da un altro punto di vista il ragionamento ha una sua logica. Il regime, il regime evoluto, il regime dei giorni nostri si guarda bene dall’essere violento e oppressivo. Il regime alla sua massima evoluzione è sempre un regime “culturale”, che ti avvolge, ti incanta, ti strega e ti seduce, ti dà qualsiasi cosa tu chieda, ti liscia il pelo, vellica le tue frustrazioni, ti fa sentire parte integrante di qualcosa di importante e al contempo, come le spire di un boa, ti ipnotizza, ti normalizza, ti rumina, ti sminuzza, ti riformatta al punto che tu gli ubbidisci non tanto perché è lui che te lo ordina, ma perché sei tu che vuoi ubbidirgli. Pensa che geni.

Il regime, quello vero, quello perfezionato, non tortura nessuno, non ghettizza nessuno, ma, al contrario, tutti ospita, tutti include, tutti accoglie, tutti, ma proprio tutti, tutti quanti, destra, sinistra, alti, bassi, belli, brutti, bianchi, neri, asceti e donnaioli, gay ed etero, atei e credenti, tutti dentro il grande frullatore, il grande impastatore, il grande tartufo globale. E fa così, nel suo micragnoso livello da strapaese della repubblica delle banane - perché questo è il livello di regime che ci meritiamo - anche il Festival, che ingloba dentro di sé pure le cosiddette opposizioni, le cosiddette minoranze oppresse, le cosiddette denunce sociali.

Il regime dell’Ariston è un po’ come il Keyser Soze dei “Soliti sospetti” - “la beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è convincere il mondo che non esiste” - e infatti il suo assunto è che non ci sia alcun regime. Non vedete quanto spazio alle donne? Certo, lo spazio di mettersi il tacco dodici, scendere la scalinata, articolare un ridicolo monologo da quinta elementare, insomma, fare le vallette, come al solito... Non vedete che eroica difesa della Costituzione? E in effetti ci vuole un coraggio napoleonico nel chiamare il bollito Benigni, che più bollito non si può, a trombonare sulla Carta più bella (?) del mondo. E non vedete che parole audaci sulle foibe e sulla resistenza e come gliele ha cantate a Gratteri la giornalista famosa perché fidanzata con il giornalista leggermente più famoso di lei e poi che ardito il rapper che insulta il sottosegretario travestito da nazista e che iconoclasta il cantante che prende a calci i fiori e che intrepida la comica (?) che dice che le donne sono donne anche senza figli - e anche queste sono rivelazioni… - e la pallavolista nera che il razzismo è una cosa brutta assai e la influencer che si è disegnata le tette, e già che c’era poteva pure dipingersi una quarta così l’italiano medio era più contento, ed è tutta una sorpresa e una provocazione e un coraggio coraggioso che coraggiosamente incoraggia a uscire dagli schemi e a essere liberi e indipendenti e a dire parole di verità ai più giovani che, signora mia, ormai hanno il loro linguaggio che non sappiamo più intercettare. Cosa peraltro davvero curiosa, questo fatto che agli adolescenti di oggi si debba parlare come a degli imbecilli: “Delitto e castigo” si legge a sedici anni, i Radiohead si ascoltano a diciassette, “Il Settimo sigillo” si guarda a diciotto e questi invece si devono beccare la Ferragni con il ditino alzato. Misteri...

Ma si sa. Il regime aborre la complessità. Ha bisogno delle sue cosine al posto giusto, di tutte le sue parti in commedia, di tutti i suoi pupazzi, i suoi servi, i suoi utili idioti. E anche chi crede di essere un gran cervellone non si rende conto che fa solo la comparsa, nel gran circo del regime, che prima ti usa, poi ti strizza e infine ti butta dentro al secchio. E’ per quello che c’è spazio per tutti, ma proprio per tutti: il nazista dell’Illinois, il sindacalista maneggione, l’intellettuale populista, il no vax che è tutto un complotto, il santone bigamo, la cubista laureata in astrofisica, il putiniano alle vongole, il cugino d’America, il macaco sul calesse, la Donna Barbuta, l’Uomo Salsiccia, il nano sodomita, il Pagliaccio Baraldi e, soprattutto, la pletora infinita, incalcolabile, sterminata dei postatori e twittatori e instagrammatori e tiktokettori del Belpaese, che passano le serate a motteggiare e chiosare e celiare - un popolo di battutisti - illudendosi che a qualcuno interessi qualcosa dei loro ridicoli e generalmente sgrammaticati pensierini social. Mentre invece non importa a nessuno - a nessuno importa di nessuno -: importa solo al regimetto, lesto ad accogliere un nuovo branco di pecoroni da accompagnare, tutti garruli e beoti, al mattatoio cerebrale che li aspetta.

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