Panarisi già finì nei guai
per colpa di Capellato

Se non nell’assassinio (seguendo la verità di Leonardo Panarisi, la cui versione viaggia su binari diametralmente opposti rispetto a quella della procura) senz’altro nell’occultamento del cadavere (sulla cui ricostruzione quei binari si incrociano). Complici, dunque, eppure nemici. E da quando Emanuel "Popo" Capellato dal carcere ha deciso di sua spontanea volontà di tirare in ballo il 51enne con casa a Tavernerio, additandolo come il killer, colui che materialmente ha sparato ad Antonio Di Giacomo

COMO Complici. Se non nell’assassinio (seguendo la verità di Leonardo Panarisi, la cui versione viaggia su binari diametralmente opposti rispetto a quella della procura) senz’altro nell’occultamento del cadavere (sulla cui ricostruzione quei binari si incrociano). Complici, dunque, eppure nemici. E non da poco, da quando cioè Emanuel "Popo" Capellato dal carcere ha deciso di sua spontanea volontà di tirare in ballo il 51enne con casa a Tavernerio, additandolo come il killer, colui che materialmente ha sparato ad Antonio Di Giacomo. Tra Panarisi e Capellato l’inimicizia durava da anni e, più precisamente, dal giorno in cui i carabinieri mettevano le manette ai polsi dell’uomo originario di Raffadali (Agrigento) con l’accusa di traffico internazionale di cocaina.
Dietro quel pacco proveniente - nel luglio 2001 -dall’Ecuador, contenente un chilo di polvere bianca e indirizzato a tale Eugenio Brambilla, stando alla ricostruzione del Panarisi ci sarebbe stato Nilo Capellato, il padre di Emanuel. Ma Nilo il contrabbandiere, in quegli anni, era dietro le sbarre e della logistica della spedizione - almeno questo è ciò che sostiene Panarisi - se ne sarebbe dovuto occupare il figlio Emanuel. Ma così non fu. Risultato: l’uomo che nega di aver sparato a Di Giacomo aveva deciso di farsi personalmente carico del ritiro del pacco, finendo però prima in cella, quindi sotto processo (che gli è costato una condanna a 10 anni) e uscendo dal carcere solo sei anni più tardi grazie all’indulto. Sei anni che Panarisi - lui stesso non ne ha fatto mistero neppure durante l’interrogatorio con gli inquirenti - non ha mai perdonato a Emanuel Capellato.
La domanda che Procura e uomini della squadra mobile si fanno ora è: perché qualcuno dovrebbe sentirsi in dovere di dare una mano, facendo sparire nientemeno che un cadavere, al killer nei confronti del quale non riesce neppure a nascondere il proprio odio?
In attesa che si chiariscano meglio le responsabilità su chi ha effettivamente sparato ad Antonio Di Giacomo, in un venerdì pomeriggio di inizio ottobre, emergono nuovi particolari sull’occultamento del corpo della vittima. Per stessa ammissione sia di Capellato che di Panarisi l’idea originaria per riuscire a spostare il cadavere dalla casa di via Cinque Giornate e a caricarlo sul furgone giallo parcheggiato fuori dalla zona a traffico limitato, era quella di passeggiare per il centro storico con, nascosto nell’armadio, il povero Di Giacomo: da via Cinque Giornate a via Plinio, trasportando l’armadio-bara con un carrello. Ma il cadavere era troppo visibile e Panarisi ha deciso di far portare il furgone sotto casa di Capellato, pur sapendo che il vigile elettronico avrebbe registrato il passaggio. Erano le 20.20 di una notte di pioggia. E in una Como deserta due uomini tentavano di far scomparire le tracce di un omicidio ben oltre le soglie dell’assurdo.
P. Mor.

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