Delitto del furgone, altri particolari
Il corpo doveva finire nel pozzo

Nuova carrellata di retroscena nell’inchiesta sull’omicidio Di Giacomo, dettagli emersi dagli interrogatori dei due principali indagati, Emanuel Capellato e Leonardo Panarisi. Il piano iniziale non contemplava l’abbandono della salma in via Europa Unita a Tavernerio: il cadavere doveva finire in un pozzo sotto una vecchia villa di Lipomo

COMO Nuova carrellata di inediti retroscena nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio di Antonio Di Giacomo, dettagli granguignoleschi emersi dagli interrogatori dei due principali indagati, Emanuel Capellato e Leonardo Panarisi.
Per esempio: il piano iniziale dei due amici non contemplava l’abbandono della salma in via Europa Unita a Tavernerio, dove - lo ricordiamo - Di Giacomo fu ritrovato chiuso nel suo furgone. Il cadavere doveva finire in un pozzo sotto una vecchia villa di Lipomo, costruita nella zona residenziale al confine con il Comune di Montorfano. Capellato la conosceva bene perché nel terreno accanto c’era un’altra villa, appartenuta fino a qualche anno fa a suo padre Nilo, detto il "pugile", volto noto del contrabbando comasco, scomparso nel 2004. Quando la sera del 9 ottobre Emanuel arriva in via Europa Unita, sta proprio cercando quel posto. Posteggia il Mercedes «Vito» nel punto in cui sarebbe poi stato ritrovato e, tentando di riannodare il filo di ricordi d’infanzia, prova a identificare il cancello di quella vecchia casa che sa ancora vuota, senza riuscirci. Ecco perchéalla fine decide di lasciare lì il furgone e di andarsene a piedi. Ma non solo: gli interrogatori avrebbero chiarito anche i contorni di un’operazione particolarmente azzardata, tra le tante compiute nel tentativo di liberarsi il corpo. Se la strana coppia Panarisi Capellato decide di portare il furgone giallo all’interno della cinta muraria è soltanto perché durante il trasporto del cadavere dall’appartamento al piano terra dello stabile di via Cinque Giornate, qualcosa va storto. Il corpo è chiuso nel noto armadio grigio, che quando viene caricato in ascensore si rompe mandando a monte il piano iniziale, che prevedeva di trasportare quella cassa improvvisata dalla casa al furgone, fuori dalla città murata, servendosi di un carrello recuperato al bar dove Capellato lavorava. È evidente che l’armadio semi aperto non consente più di attraversare la città. Sono circa le 20, piove a dirotto ma i rischi restano altissimi. L’unica soluzione è quella di sfidare il vigile elettronico di piazza Peretta. Il furgone, inevitabilmente ripreso dalle telecamere, viene portato fin sotto la casa e posteggiato contro l’ingresso, in modo da limitare al minimo il campo visivo di eventuali testimoni. Poi riparte verso Tavernerio. Panarisi, che ammette di avere partecipato alle operazioni di "bonifica" della scena del delitto ma nega con fermezza di avere preso parte al delitto, avrebbe raccontato al pm di essere uscito dalla casa di via Cinque Giornate con le scarpe sporche di sangue: «Cercai di pulirle camminando nelle pozzanghere».

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