L'omicida

Quarant'anni, sposato, padre di due figlie. Ecco chi l'insospettabile armeire Alberto Arrighi, erede di una delle più note famigli di commercianti di Como

COMO - «Tanta gente oggi vorrebbe armarsi, ma non sa cosa rischia. Per sparare ci vuole fegato, molto, e lo dimostra il fatto che raramente lo si faccia di proposito. Capita più spesso che un colpo parta involontariamente, con conseguenze imprevedibili... Possedere una pistola per difesa personale significa sapere se, quando e come usarla, sapere financo cosa dire a chi ti si intrufola in casa prima di puntargliela addosso».

Così spiegava Alberto Arrighi non più tardi di un paio d'anni fa, regolando il traffico dei clienti che entravano e uscivano dal suo bellissimo negozio di via Garibaldi, zeppo di fucili intarsiati, di tamburi tirati a lucido, ma anche di giubbe da caccia, di piccole memorabilia militari, di manuali per il tiro alla beccaccia, al capriolo e al gallo forcello. Tra fucili Beretta e 44 Magnum, Alberto, del resto, c'è cresciuto. Quarant'anni, terzo di tre fratelli a lungo proprietari di uno dei negozi di articoli sportivi più conosciuti della città, dal 2006 si era trasferito qui, a due passi da piazza Volta, dove aveva aperto una armeria che, per certi versi, lo riportava là dove il padre di suo padre era partito all'inizio del secolo scorso. A questo negozio, Alberto teneva e tiene moltissimo. Sollevare per la prima volta quella saracinesca fu riannodare il filo allacciato per la prima volta nel 1905 dal nonno Alessandro, che appena diciassettenne, venne assunto come apprendista alla Falc, acronimo di «Fabbrica armi Lario Como» dove apprese i primi rudimenti del mestiere, prima di finire richiamato nell'esercito a servizio del maresciallo Pinto, sottufficiale in forza al 67° fanteria di piazzale Montesanto. Pinto era anche proprietario di una botteguccia buia buia in via Indipendenza, in cui si servivano i cacciatori e i nostalgici di certi duelli alla pistola con cui, fino a pochi anni prima di quel 1905, ancora si risolvevano questioni d'onore all'ombra dei platani di Camerlata.

Cent'anni dopo il lavoro di Alessandro è il lavoro di Alberto. Che alla vendita di armi associa diverse attività parallele: in Procura, per esempio, è una sorta di istituzione, consulente di riferimento per la maggior parte delle perizie balistiche, ma tra le forze dell'ordine è conosciuto anche per la sua attività di addestratore. In Italia è tra i più noti istruttori di tiro difensivo: tiro su sagome osteggiate, tiro da copertura, tiro in ginocchio, in rotazione, in movimento. Le armi erano la sua vita: quando l'avvocato Dino Luzzani se ne andò, Alberto venne a sapere di certe esemplari da guerra che l'avvocato aveva custodito per anni. Mitra sovietici, mitragliatori Thompson (sì, quelli della Chicago anni Venti), Walther Parabellum P38, mitragliatori Mg. Il salvataggio di quelle armi destinate a essere distrutte tramite fusione, si deve proprio a lui, ad Arrighi, che seppe avvalersi di alcune deroghe ministeriali per smontarle, sventrarle, piombarle e sigillarle, prima di consegnarle al Museo della Resistenza di Dongo, dove sono tuttora esposte. A chi gli chiedeva un'arma, Alberto ha sempre riservato lo stesso trattamento: apriva un cassetto sul retro del negozio, vicino al caveau in cui custodiva i suoi fucili, e ne estraeva una piccola pistola finta, tutta blu. Poi gliela metteva in mano e lo invitava a puntarla: «Per dimostrargli - diceva - quanto sia facile ritrovarsi, in un attimo, nei guai fino al collo».
Stefano Ferrari

(03 febbraio 2010)

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