Merone, agguato all'alba
Ferito nell'auto crivellata

Merone: la vittima, 41 anni, si trovava in automobile quando è stato affiancato da un'altra vettura da cui sono stati esplosi vari colpi. L'uomo è ricoverato in prognosi riservata

MERONE - Ha innestato la retromarcia cercando disperatamente di proteggersi, mentre un killer a volto coperto gli riversava addosso il piombo della sua pistola. Uno, due, dieci colpi. Luigi Di Pinto, 41 anni, originario di Taranto ma da una vita trapiantato tra Monguzzo e Merone, è da ieri mattina ricoverato all'ospedale Manzoni di Lecco con quattro colpi di pistola nel torace, sparati nel corso di un agguato teso attorno alle 7.40 in via don Moranzoni, una strada che risale verso le ciminiere della cementeria attorcigliandosi sotto a un cavalcavia della nuova Valassina. È riuscito a salvarsi, Di Pinto, anche se resta in rianimazione e in prognosi riservatissima dopo un lungo intervento chirurgico.

Padre di una ragazzina di tredici anni, un lavoro come operaio e imbianchino nella ditta individuale di Emilio Tramarin, suo suocero, il ferito è un uomo piuttosto conosciuto tra l'Erbese e la provincia di Lecco soprattutto per i suoi trascorsi giudiziari. Fu arrestato nel 2001 dalla polizia lecchese assieme a Bruno Deluca, cinquantenne di Dolzago cognato del boss Franco Coco Trovato, al culmine di una operazione anti droga che gli costò una condanna a sei anni di carcere. Ieri è uscito di casa verso le 7.40 ma anziché andare al lavoro con il suocero si è messo al volante della sua Micra per una seduta di fisioterapia a Costa Masnaga, conseguenza di un trauma a una gamba. Da via Buerga, a un passo dal confine con Monguzzo, è risalito lungo via don Moranzoni fin quasi all'incrocio con via Volta dove ad attenderlo in auto c'erano i killer, in due ed entrambi a volto coperto. Quando l'ha visto arrivare, uno di loro è sceso dalla macchina e ha iniziato a sparare.

«Sembravano i petardi dei ragazzini», racconterà poi una signora che vive in una delle case costruite a ridosso dell'incrocio: «Ero in bagno, dopo qualche secondo mi sono affacciata ma a quel punto non c'era già più nessuno». In quel pugno di secondi, Di Pinto ha avuto la prontezza di innescare la retromarcia e di ridiscendere lungo la strada praticamente alla cieca, nascondendosi sotto il cruscotto per sottrarsi a quell'inferno di fuoco. Sull'asfalto i carabinieri del Reparto operativo del comando provinciale hanno recuperato una dozzina di bossoli, praticamente un intero caricatore di calibro 9. I proiettili hanno frantumato i cristalli dell'auto conficcandosi sia nel cofano che nelle portiere, ma soltanto quattro sono andati a segno. Esaurito il caricatore, il killer è risalito in macchina ed è fuggito con il complice in direzione di Lecco incrociando l'autobus che stava raggiungendo le scuole medie di Monguzzo per la gita scolastica. L'autista è, di fatto, l'unico vero testimone, anche se dopo di lui sono arrivati altri automobilisti che hanno lanciato l'allarme.

Così, mentre Di Pinto veniva trasferito a sirene spiegate al Manzoni di Lecco, i sicari raggiungevano uno sterrato accanto a una strada secondaria che collega la Statale 35 alla zona industriale di Rogeno. La loro auto, una Fiat Punto bianca rubata la notte precedente a Canzo, è stata data alle fiamme, in perfetto stile mafioso. Sul sedile del passeggero i carabinieri della compagnia di Cantù e i colleghi della stazione di Lurago d'Erba, hanno recuperato l'arma, una pistola calibro 9 che sarà spedita probabilmente al Ris per verificarne l'eventuale provenienza, anche se è quasi scontato che si tratti di un'arma rubata. Sarà comunque difficile ricostruire il filo dell'agguato. La scientifica ha fatto il possibile, raccogliendo bossoli sull'asfalto e tracce nell'abitacolo della Micra zuppo di sangue e devastato dai colpi. Ieri mattina l'auto è rimasta immobile per oltre tre ore nel punto in cui Di Pinto era riuscito a fermarla prima di perdere i sensi e di raccomandare l'anima ai soccorritori. La sensazione è che il fascicolo aperto ieri sia destinato a restare a lungo iscritto contro ignoti. La storia della vittima, trascinata davvero sul baratro della morte, induce a scavare in ambienti criminali, a margine dei laboratori di spaccio tra l'alto milanese e le nostre province.

A Como carabinieri e inquirenti si aspettano anche un aiuto da lui. Che se anche non potrà spendere il nome di chi gli ha sparato, visto che i sicari si nascondevano con un passamontagna, senz'altro potrà dire chi gli è nemico tanto al punto da volerlo morto.

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