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Domenica 23 Gennaio 2011
"Ti ricordi di Elisa Vanelli?"
L'enigma della donna del lago
Torna alla ribalta la tragica protagonista dei due libri di successo di Giusepe Guin: vittima di uno stupro, poi in carcere per un delitto, prepara un clamoroso rientro
...Rude, selvatico e pure un gran bestemmiatore. Bortolo Gilardoni, detto il Gobbo, era un uomo così. Da almeno vent'anni, dopo la morte della moglie Faustina, viveva solitario dentro la Pulveréra, una delle cave di pietra più antiche e isolate del lago di Como. La pietraia aveva quel nome, perché a metà costa c'era un casello di sassi, dove il Bortolo custodiva la dinamite e i proprietari delle altre cave andavano a comprare la polvere per far saltare le rocce.
Tipo irascibile, il Gobbo, un carattere scontroso, che nella vita aveva attaccato briga con chiunque, persino con il maresciallo Calogero Spina, detto il Panza e pure con quel brav'uomo di un prevosto, don Gervaso Tancredi. Burbero, intrattabile e tal miscredente, che tutti ritenevano la sua schiena ricurva una diretta maledizione del Padreterno.
Successe una ventina di anni prima. Lui, insonne da sempre e gran lavoratore, era andato in cava, come ogni mattina, prima dell'alba. Si era messo a squadrare sassi in cima ad un costone di roccia, ma quello che accadde poi, nessuno riuscì mai a saperlo.
L'unica cosa certa fu che, un paio d'ore dopo, quando arrivarono al lavoro i suoi due garzoni, lo videro riverso bocconi sul fondo della cava, immobile.
«Diosanto, non sarà mica morto il Bortolo!», fu il loro primo pensiero e si precipitarono giù dal sentiero di sassi. Lo trovarono privo di sensi, con il braccio destro sanguinante e le gambe paralizzate.
«Signor Gilardoni? Risponda signor Gilardoni!», gridarono i due operai, ma non ricevendo alcuna risposta non poterono fare altro che caricarlo su una barella, costruita al momento con dei tronchi d'albero, e portarlo su dal costone. Il Bortolo riprese conoscenza soltanto sul lettino dell'ambulatorio del dottor Barelli, ma non riuscì più a rimettersi diritto.
***
La casa del Gobbo, costruita a mezza costa, era attorniata da un bosco fitto, percorso da viottoli scoscesi e, in riva al lago, aveva un vecchio pontile di legno, ancorato con delle grosse catene di ferro, che le onde facevano continuamente cigolare.
Quel giorno, c'era una nuvola di fumo bianco che sbuffava dal comignolo di sasso scuro e l'assenza di vento la faceva ristagnare tra i rami più alti dei frassini. La piccola finestra dell'abbaino era socchiusa e, in lontananza, si sentiva l'abbaiare insistente di un cane.
«Il Bortolo è in casa di sicuro», disse compiaciuto l'Edoardo, detto il Térz e, continuando a remare in direzione dell'approdo, non tolse più lo sguardo dalla Pulveréra.
«È in casa!», ripeté ancor più convinto Sebastiano Poletti e, appena l'inglesina arrivò sotto costa, cominciò a chiamarlo.
«Bortolo! Bortolo!», gridò mentre la barca si avvicinava al pontile.
La prima risposta, e immediata, fu però quella di Barbablù, il fedele cane lupo che il Gobbo chiamava Balù. Comparve improvvisamente da dietro la casa e cominciò a correre giù dal sentiero, abbaiando. Si infilò tra i bastoni di un cancelletto di legno e, in un attimo, saltando tra i sassi e i cespugli di menta selvatica, arrivò fino al pontile continuando a ringhiare.
L'Edoardo si staccò dall'ormeggio e Sebastiano provò a richiamare il Gobbo. Inutilmente. Il cane seguitava ad abbaiare rabbioso, ma davanti alla casa non comparve nessuno.
«Bortolo, sono Sebastiano Poletti - ripeté, amplificando la voce con le due mani accanto alla bocca - Bortolo, sono qui con un amico, ti dobbiamo parlare!». Silenzio. Solo un lungo silenzio sommerso dall'abbaiare forsennato di Barbablù.
«Aspettiamo - fu il consiglio di Sebastiano - il Gobbo è così, non ama incontrare gente, ma se c'è la finestra dell'abbaino aperta e se c'è il camino acceso, vuol dire che lui è in casa. Ci starà guardando da dietro quelle imposte, ma prima o poi si deciderà a farsi vivo» e nell'attesa tentò di sedare il latrare rabbioso del cane.
«Buono Balù, stai buono!», provò a dire con tono suadente, ma l'effetto ottenuto fu soltanto quello di indispettirlo ancor di più.
«Questo è peggio del padrone - bofonchiò il Térz - selvatico uno, ancora più selvatico l'altro. Vedrai che, se anche dovesse decidersi a darci retta, non accetterà mai di nascondere qui l'Elisa. Il Bortolo è troppo abituato a fare una vita solitaria e non avrà nessuna intenzione di tirarsi in casa la Vanelli».
Parlava in modo sconsolato, quasi con una sorta di rassegnazione, ma nello stesso tempo continuava a tenere lo sguardo fisso verso la Pulveréra.
Quella vecchia cava abbandonata aveva proprio le sembianze di un luogo inospitale. Dal lago si notava chiaramente un bosco incolto, con sparsi qua e là anche alcuni alberi caduti e rami spezzati. Ovunque c'erano rovi che crescevano disordinati e i più rigogliosi erano persino andati ad invadere il minuscolo sentiero che saliva dal lago verso la casa.
L'abitazione aveva i muri scrostati in più punti, c'era una grondaia del tetto penzolante e, al piano terra, si notava un'imposta della finestra completamente sbilenca. Vicino al porticato c'erano pure dei pezzi di staccionata divelti e, poco distante, nei pressi di un piccolo orto, svettavano due grossi spaventapasseri di foggia umana. Uno era fatto con il manico di una scopa a cui erano stati legati dei sacchi di iuta, l'altro, molto più vistoso, era stato costruito con dei rami d'albero ricoperti con degli stracci di diversi colori.
«C'è quasi da sperare che il Gobbo non ci risponda - sbuffò d'un tratto il Térz - non me la vedo la povera Elisa vivere in questo posto e per di più insieme ad un vecchio così trasandato».
Scosse la testa e aggiunse: «Sebastiano, dammi retta, andiamocene via e cerchiamo un luogo più adatto».
Il Poletti cominciò a spazientirsi, afferrò un pezzo di ramo secco, trovato sul fondo della barca e lo scagliò contro Barbablù, che seguitava ad abbaiare, dimenandosi sul piccolo pontile che stava loro di fronte.
«Vattene bestiaccia!» urlò, ma proprio in quel momento, dall'alto della Pulveréra si sentì una voce rauca: «Balù, basta!».
Istantaneamente il cane lupo si acquietò, finì di abbaiare e si mise seduto sulle zampe posteriori, con il muso diritto, puntato verso la barca.
«È la voce del Gobbo», disse subito Sebastiano. L'Edoardo si voltò quasi spaventato, ma a quelle parole, strillate per far acquietare Barbablù, non ne seguirono altre.
«Bortolo! - gridò allora il Tèrz - Bortolo mi senti?».
Non rispose nessuno, se non il ringhiare trattenuto del cane, che avrebbe avuto una gran voglia di rimettersi ad abbaiare, ma nelle orecchie aveva ancora l'ordine perentorio del suo padrone.
«Bortolo!», provò ad insistere e fu a quel punto che dalla cima della cava si udì la voce distinta del Gobbo: «Chi è che chiama?».
«Sono Sebastiano Poletti e ho bisogno di parlarti?», rispose.
«Chi?», domandò di nuovo.
«Sebastiano, della cava dei Mulìtt, ti devo chiedere un favore!"».
Trascorsero pochi istanti, poi da sotto il portico si vide comparire la sagoma del Gobbo. Aveva addosso un lungo mantello nero che gli scendeva quasi fino ai piedi e in testa un cappellaccio di fustagno dello stesso colore.
Fece due passi verso una recinzione che dava su una riva scoscesa di terra mossa e rocce e si appoggiò ad una pianta di robinia cresciuta storta.
«E di che cosa avete mai bisogno?», domandò raddrizzandosi sulla schiena storta.
«Abbiamo bisogno di parlarti di una certa questione… possiamo salire?».
Il Gobbo diede chiari segni di non gradire quella incursione, ma dopo pochi attimi chiamò il cane.
«Balù», sbraitò iroso e Barbablù lasciò subito il pontile, riprendendo il sentiero dal quale era sceso. Appena gli arrivò appresso, il Bortolo lo legò ad una catena che spuntava da un anello fissato al muro della casa e ordinò: «Salite! Il cancelletto di legno è aperto. Basta togliere il filo di ferro, sollevarlo un po' e spingere».
Il Térz legò la barca a prua, Sebastiano fece la stessa cosa a poppa ed entrambi si incamminarono lungo il viottolo che saliva verso la casa del Gobbo.
***
«Ma con tutta la gente che c'è in paese - borbottò appena se li trovò davanti - dovete proprio venire a parlare con me?».
L'Edoardo si voltò verso Sebastiano e, benché gli leggesse in viso un'espressione di impaccio, quasi di imbarazzo, lo spinse a parlare.
«Bortolo, ti ricordi di Elisa Vanelli?», domandò, senza tanti giri di parole.
Il Gobbo sbarrò gli occhi.
«Io mi ricordo soltanto della madre Ottavia Berardi - rispose, cominciando però a tossire per via di una bronchite mai curata, che gli si trascinava da anni - la signora era una gran bella donna! Io andavo alla locanda del Nibbio soltanto per vedere lei». Poi la tosse divenne così insistente, che smise di parlare.
«Noi siamo venuti per parlarti della figlia!», riprese Sebastiano.
«La figlia, l'ultima volta che l'ho vista aveva il grembiule di scuola - borbottò il Gobbo - da quando ho chiuso la cava, vent'anni fa, non mi sono più interessato della gente e delle vicende di questo paese». Un sospiro, un lungo silenzio, che i due non provarono ad interrompere, poi: «E non voglio nemmeno sentirne parlare adesso - aggiunse a bassa voce - con tutto quello che è successo a quella povera figliola… ».
«Ma che cosa sai di lei?».
«So quello che mi ha raccontato Norberto Cerami».
Sebastiano sbiancò. Si alzò di scatto e, quasi balbettando per l'emozione e la rabbia che quel nome gli stava rievocando, domandò: «Norberto Cerami? Che cosa ti ha mai raccontato il Berto?».
Il Gobbo, però, senza ascoltare le sue parole, si alzò e, tenendosi la schiena ricurva, sparì oltre la porta di casa...
Giuseppe Guin
(© Giuseppe Guin)
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