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Domenica 12 Giugno 2011
"In un incubo a 64 anni,
in carcere insulti e minacce"
Parla il geometra arrestato nel blitz della guardia di finanza nel condominio delle escort di via Carso e racconta la sua esperienza in carcere con chi gli diceva "Impiccati"
Giuseppe Giani, 64enne di San Fermo arrestato un mese fa nel blitz delle fiamme gialle al residence delle escort di via Carso, accetta di parlare. Non già delle accuse ipotizzate - e che i suoi legali, gli avvocati Fabio Gualdi e Fabio Ansideri, hanno avuto modo di contestare - ma dell'esperienza del carcere.
«Ti cade il mondo addosso» attacca quest'uomo, tornato completamente libero (seppure ancora sotto inchiesta) dopo cinque giorni di carcere e tre settimane di domiciliari. Seduto accanto alla moglie Sandra, Giuseppe Giani (che è completamente incensurato) è un torrente di ricordi: «Nella mia vita non mi sarei mai aspettato una cosa simile. Ricordo quel giorno: verso le cinque del pomeriggio sono arrivati in ufficio i finanzieri. Pensavo a un controllo fiscale. Mi hanno chiesto i documenti della società (quella che gestisce una dozzina di appartamenti del residence e con cui Giani collaborava ndr) quindi mi hanno consegnato un atto: ho visto che ero indagato, ma non avevo capito che sarei dovuto andare in carcere». Gli uomini del nucleo di polizia tributaria sono «gentili», hanno modi «delicati e rispettosi» nei confronti di quest'uomo dai capelli bianchi, la barba ben fatta a parte i baffi, folti. «A un certo punto mi dicono: dobbiamo andare a casa. "Va bene, venite", rispondo io. Arriviamo a San Fermo e mia moglie deve tenere a bada il cane: sa, abbaia a chi non conosce». Qualche documento da controllare, poche formalità, prima di dire: «"Signor Giani si metta a sedere", mi fa un finanziere. "La dobbiamo portare in carcere"». Il gelo nell'anima.
«Ho preso due cose e siamo andati prima ad Albate, alla caserma della finanza dove ho firmato non so quanti fogli. Sono stati sempre gentilissimi mi hanno anche dato un panino da mangiare. Poi, a mezzanotte, siamo partiti per il Bassone. "La prassi vuole che le mettiamo le manette quando entriamo", mi spiegono». E così il geometra Giani fa il suo ingresso in carcere: «Il fatto è che entri e non sei più il geometra Giani. Sei un uno. Neanche un numero, solo un uno. Ti danno un sacco nero del pattume, ti consegnano un rotolo di carta igienica, una coperta, un piatto di alluminio, il bicchiere di alluminio e poi via in cella». La prima notte, però, la passa in un'altra stanza, su un materasso messo a terra. Il giorno dopo impronte digitali, foto, altre firme e la cella d'isolamento: «Ero senza orologio, in quella stanzetta con la porta chiusa. Non potevo vedere fuori, ma sentivo gli altri detenuti passare. Mi bussavano, mi chiamavano per sapere chi ero e perché ero stato arrestato. Un ispettore mi ha consigliato di rispondere: "Per reati finanziari"». Il perché di quella bugia Giuseppe Giani lo scoprirà la seconda sera: «In tv hanno dato la notizia dell'arresto e ho cominciato a sentire le urla degli altri detenuti. Insulti. Mi hanno gettato contro la cella le bombolette del gas. Mi gridavano: "Impiccati, magnaccia"». Un incubo che ha costretto gli agenti a un precipitoso trasferimento in infermeria.
«Il tempo? Non passa mai. Mi ero portato un libro. C'era la televisione, ma non avevo l'orologio. Ogni tanto sentivo: "aria" e sapevo che potevo uscire in cortile un'ora. E poi "terapia" e sapevo che mi portavano le medicine. Oppure "mensa" ed era ora di mangiare. Il minestrone era buono, ma il resto...». Cinque giorni «da incubo». Tre senza colazione. Due senza poter indossare la felpa portata da casa, perché aveva il cappuccio «ed è vietato in carcere». Al quinto giorno, i domiciliari: «Ma lì sei con la famiglia, sei a casa». Non vivi più immerso nell'incubo di un luogo «che ti toglie non solo la libertà, ma anche la dignità».
La moglie Sandra osserva la penna prendere appunti e ha qualche sassolino dalla scarpa da togliersi: «È brutto ritrovarsi sbattuti sul giornale in quel modo. I primi giorni avevo paura della reazione delle persone, ma ho avuto solo dimostrazioni d'affetto. Ho incontrato gente con le lacrime agli occhi. La cosa più tremenda era avvisare i parenti del fatto che stavano arrestando Giueppe: non trovavo il coraggio. Come glielo raccontavo?». Ma se ha ragione De Andrè che dai diamanti non nasce niente, allora sarà senz'altro vero anche quello che la signora Sandra confessa: «Sono momenti tremendi in cui riscopri i valori dei figli» e questo non fatichi a crederlo. «Ma sono anche esperienze che ti danno una grande lezione: d'ora in poi saremo più attenti e cauti a giudicare. Perché si fa presto a condannare». Più faticoso è tirarsi fuori. Riattraversare cancelli, porte blindate, chiavistelli e lasciarsi l'inferno alle spalle.
Paolo Moretti
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