"Delitto del tutto casuale
Arrighi armato dal dolore"

Gli spari in armeria sono stati l'atto finale di un delitto studiato a tavolino e premeditato con spietata freddezza, come pensa il giudice che ha condannato Alberto Arrighi a trent'anni di carcere, oppure «gli ultimi giri che la vite della sorte dà ad un dolore accumulato e compresso», come sostengono i difensori dell'armiere?

COMO Gli spari in armeria sono stati l'atto finale di un delitto studiato a tavolino e premeditato con spietata freddezza, come pensa il giudice che ha condannato Alberto Arrighi a trent'anni di carcere, oppure «gli ultimi giri che la vite della sorte dà ad un dolore accumulato e compresso», come sostengono i difensori dell'armiere? Sono "sintetizzati" in 46 pagine depositate alla corte d'Assise di Appello di Milano i motivo per cui i legali Ivan Colciago e Francesca Binaghi chiedono la riapertura del processo per il delitto Brambilla, arrivando a sollecitare ai magistrati meneghini anche l'assoluzione per capacità di intendere e di volere dell'imputato. Ma il cuore di un ricorso attento a sviscerare tutti o quasi gli elementi contrastanti del terribile omicidio del febbraio dello scorso anno è, soprattutto, quello dedicato a smontare l'aggravante della premeditazione. Che, da sola, ha alzato la condanna finale di oltre dieci anni.
Indubbiamente una lettura avvincente, quella dei difensori dell'armiere, che «nel 2009, in piena crisi economica e in seguito al rifiuto da parte di un istituto di credito di rinegoziargli un debito» ha incontrato «il miraggio» di una via d'uscita dalle difficoltà finanziarie: «Giacomo Brambilla». «Ma le cose - scrivono nel ricorso i difensori - cambiarono repentinamente; Brambilla, in poco tempo, mutava radicalmente il suo atteggiamento ponendosi non più come il socio collaborativo e volenteroso, ma come persecutore» e il «rapporto di amicizia e di collaborazione», nella lettura che ne fanno i due penalisti, «diventa così pura sudditanza di Alberto» Arrighi. «Brambilla era la persona che avrebbe potuto "salvare" Alberto dal disastro finanziario. Invece, il 2 febbraio 2010, arriva il tragico epilogo». Un epilogo che, si legge nel ricorso, «non è stato premeditato» come motivato invece dal giudice del primo grado.
Gli elementi di contrasto. Uno: la pistola calibro 22 presa dalla vetrina delle armi in vendita e usata per esplodere i primi due colpi alla nuca alla vittima. «Solamente perché l'arma è stata prelevata, secondo il giudice, deve trattarsi di una pistola nuova. Fortunatamente - scrivono gli avvocati Colciago e Binaghi - la verità non si può distruggere. La pistola non è nuova bensì usata, come risulta dal registro "carico armi" sequestrato in armeria». E, sempre secondo il ricorso, non sarebbe neppure stata caricata ore prima in previsione del delitto, bensì «preparata scarica per» l'appuntamento serale al «poligono ed è stata armata dall'imputato solamente nel momento in cui Brambilla lo ha offeso», ovvero quando gli avrebbe urlato (nella ricostruzione fornita da Arrighi): «Tu non hai ancora capito bello che di tua moglie e delle tue figlie non me ne frega un c...». Motivano gli avvocati: «Il proposito di Alberto, in quel momento, non è criminoso, ma quello di preparare il necessario per andare al poligono la sera».
Due: gli spostamenti della mattinata del delitto, quando Arrighi «si reca prima in Prefettura a consegnare i documenti per la voltura delle licenze di pubblica sicurezza» e quindi «dal commercialista» di Brambilla: «Se avesse premeditato l'omicidio avrebbe certamente preparato oltre la pistola, i vestiti per cambiarsi dopo l'omicidio, il necessario per pulire le eventuali tracce di sangue, disattivato o anticipato o posticipato le telecamere». Tre: le riprese dell'omicidio. «Alberto - si legge - avrebbe ben potuto, essendo in grado di farlo, programmare il sistema» di videosorveglianza. «In realtà niente di tutto ciò» è stato fatto, secondo i difensori: «Questo non è un omicidio premeditato bensì un omicidio preregistrato. (...) Se Alberto avesse deciso di uccidere con l'impianto di videosorveglianza in funzione bisognerebbe quantomeno approfondire la sua capacità di intendere e di volere in quanto solo una persona anormale potrebbe compiere un omicidio in questo modo». Quattro: il testimone. Quando Brambilla arriva in via Garibaldi, siamo a una decina di minuti prima dell'omicidio, Arrighi è in compagnia di un commerciante della via: «Una persona, non un delinquente abituale, ma un soggetto incensurato che ha sempre vissuto nella legalità e che ha già programmato di uccidere, è così tranquilla? Non solo, una persona che ha premeditato di compiere un omicidio, si ferma a parlare davanti al luogo dove, poco dopo, avrebbe deciso di uccidere e attende con chi, poi, potrebbe diventare un testimone, l'arrivo della vittima?».
Cinque: delitto occasionale. «L'occasionalità del momento di consumazione di questo omicidio appare preponderante» secondo i difensori. Che liquidano la presenza dei sacchi della spazzatura già pronti e con i quali sarà avvolto il corpo con la necessità di spostare dei manichini dal negozio. Ma si soffermano sull'immagine «dell'imputato che raccoglie il sangue con le mani senza dotarsi degli strumenti adatti per la pulizia della scena del delitto». Da qui la richiesta di non contestare la premeditazione, con conseguente sensibile sconto della pena finale: «L'incontro non è dovuto a una trappola - si legge nei motivi d'appello - Non possiamo desumere alcun elemento che possa assurgere a riscontro della nascita del cosiddetto proposito criminoso, anzi possiamo tranquillamente desumere che Alberto non pensasse minimamente a commettere un omicidio». Da qui la conclusione: Arrighi sarebbe stato armato da un «dolore accumulato e compresso» che s'è scatenato del delitto di Giacomo Brambilla.
Tesi già proposte a Como, ma che non avevano convinto il giudice. Vedremo se saranno in grado di farlo in appello.
P. Mor.

© RIPRODUZIONE RISERVATA