Personale a Monza
per Paolo Maggis

Da sabato 26 novembre personale di Paolo Maggis alla galleria MarcoRossi di via Vittorio Emanuele 44 a Monza. In mostra, in contemporanea con Verona, la nuova serie di lavori: "La sonrisa de Lola", ispirata dalla lettura di “Le confessioni di un'anima” di Fedor Dostoevskij. Inaugurazione alle 18.

Monza - Lui racconta che se cresci e impari in Italia allora quella tradizione di colori e pasta in tavolozza te la ritrovi tra le mani senza quasi saperlo. E che se poi passi qualche anno in Germania, allora non riesci a fare altro che immaginarti il mondo in bianco e nero, e che Wim Wenders “Il cielo sopra Berlino” l'ha diretto così perché non c'era altro modo. E che se poi ti trasferisci a Barcellona, ecco, allora la luce ti entra sulla tela e la schiettezza, dire le cose come stanno, fare carta da camino dei filtri tra te e la realtà, è l'unica scelta che puoi fare.

Paolo Maggis ha messo in un volume i suoi primi dieci anni di vita artistica e ha voltato pagina: quella successiva si chiama “La sonrisa de Lola” ed è il lavoro che è stato diviso tra le gallerie MarcoRossi di Verona e di Monza. In città sarà inaugurato sabato, 26 novembre, alle 18 negli spazi di via Vittorio Emanuele 44 (fino al 14 gennaio, da martedì a sabato dalle 11 alle 19). Paolo Maggis, che è nato nel 1978 a Vimercate dov'è cresciuto e poi ha studiato a Brera, prima di trasferirsi tre anni a Berlino e quindi in Spagna, ti racconta prima di tutto che una scuola non la conosce - se per scuola si intende il nuovo fenomeno della rinnovata figurazione italiana.

Che figurativo, lui, lo è sempre stato, anche quando nessuno nemmeno ci pensava. E che se trova qualcuno cui deve qualcosa va in Gran Bretagna (con Bacon e Freud). Poi basta andare nei musei, dice, nelle pinacoteche, basta leggere e studiare quello che hanno fatto, un po' di secoli fa. Di Tiziano e Raffaello, che c'è chi ami di più e chi dici mah. Di Bosch che non c'è che perdersi e di Holbein che non smetti di osservare. E poi dei colori, delle prospettive, delle velature, di come un colore non è mai uguale e reagisce diversamente ai solventi e a quello che ci fai, di come lo stesso colore cambia di etichetta in etichetta e allora devi sapere, capire, conoscere e sapere fare. Perché Carducci, d'altra parte, diceva che “il poeta è un grande artiere”: sa fare, appunto. Una spallata al concettuale la dà senza pensarci, Maggis, e non si schiera con il significato se precede di troppo il significante: per lui il gesto pittorico è in sé tale, gesto, non calcolo, istinto, ma è l'istinto del sapere cosa, come e quando quel gesto sarà il risultato sulla tela.

A partire dagli occhi: di chi chi guarda e non vede che il punto di fuoco. Glielo ha insegnato Leonardo Da Vinci affinando gli studi sulla prospettiva che aveva ereditato dal Rinascimento italiano, dal Verrocchio e da Leon Battista Alberti: l'osservatore non vede che un punto per volta e il resto sfuma senza che sia possibile accorgersene. Sono i dettagli a focalizzare l'attenzione, il resto è la ricostruzione mentale e inconsapevole di chi guarda. L'altra faccia di Aldo Damioli, altro figurativo milanese e protagonista uscente di una personale alla MarcoRossi, che invece nella cerebralità della rappresentazione individua dichiaratamente la chiave di lettura del suo lavoro.

Maggis lascia all'istinto quello che prima e dopo il gesto pittorico è lettura della realtà: per questo le sue figure sono solo apparentemente indeterminate. Lo sono nell'insieme, non lo sono nei dettagli: nei dettagli - lo sguardo della mamma e del bambino di “Bellagio”, i nasi e le labbra di “Brothers” - c'è tutto quello che serve agli occhi per riscostruire la scena, per restituire allo stesso tempo l'immagine e l'emozione. Perché, dice, «non è vero che in arte vale tutto». Vale quello che racconti e vale come lo racconti. «E vale soprattutto, per me, la relazione tra le persone, uno a uno, io e te, non mi interessa il resto, il gruppo, le scuole: quello che io cerco è il racconto individuale», dice.

Ed è racconto individuale il sorriso di Lola, la figlia immaginaria dal cui sguardo Maggis rilegge il mondo (mutuandolo dal Dostoevskij delle “Confessioni di un'anima”) e lo racconta nelle tele della personale monzese: capace di vedere, e di vedere fisicamente, anche quello che l'occhio non vede. «E cosa fa una bambina che guarda il mondo nuovo intorno a lei?» si chiede Paolo Manazza nel testo in catalogo: «Prevalentemente sorride», risponde, «perché il transfert di Maggis di fatto è l'assunzione dell'amore attraverso gli occhi e il sorriso di Lola».
Massimiliano Rossin

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