Como, il Natale della crisi
Settanta in fila per un pasto

Reportage tra la mensa di via Tommaso Grossi e il dormitorio di via Napoleona, dove accanto a molti stranieri cresce il numero dei comaschi

COMO Mancano venti minuti alle sette di sera. Freddo polare in città. La mensa dei poveri di via Tommaso Grossi, gestita dalle suore guanelliane, è ancora chiusa. Ma in tanti stanno già aspettando. Cappucci, berretti di lana. Saluti in lingue sconosciute, ma anche italianissimi: «Come va?». «Ciao fratello». Sono già una trentina.

La porta è ancora chiusa, ma spuntano i biglietti con il numerino per la coda. «Si entra a gruppetti, man mano che si liberano i posti ai tavoli», spiega un ragazzone senegalese. «Andiamo male, non c'è lavoro», interviene Ahid. Il gruppo in attesa diventa sempre più numeroso, tanti i giovani e i tunisini. Arrivano anche quattro donne. Ormai sono quasi le sette, la mensa apre e il volontario sull'uscio inizia a chiamare i presenti: «Uno, due, tre, quattro, cinque... Avanti». Quaranta minuti dopo, il conteggio ha superato quota settanta.

Nessuna tensione, niente calca. Una processione silenziosa, mentre si sente in lontananza il traffico impazzito del centro città, la corsa agli ultimi regali di Natale.

Saliamo in macchina intirizziti, mentre chi ha finito di mangiare si incammina verso il dormitorio di via Napoleona. Non tutti, in realtà, perché i posti letto sono una sessantina e almeno quaranta restano in lista d'attesa. Ma c'è anche qualcuno che racconta: «Preferisco passare la notte da un'altra parte, in qualche vecchia fabbrica o dove capita, sono abituato così».

La struttura di proprietà dell'Ozanam, affittata al Comune e gestita dalla Caritas, apre alle otto. Attiva da novembre dell'anno scorso, può contare su un'ottantina di volontari. Due per turno, oltre al custode. Le statistiche raccontano di 241 persone transitate da queste stanze, ma non dicono la fatica e gli sguardi di chi varca la soglia. Si sono tutti "prenotati", hanno fatto richiesta al servizio Porta Aperta e i loro nomi compaiono sugli elenchi in mano ai volontari. Mostrano il tesserino giallo con il nome e la foto.
«Oggi c'è il cambio delle lenzuola, portaci quelle usate e ti diamo quelle pulite», dicono al di là del bancone. Qualcuno chiede il permesso di poter uscire all'alba: «Alle cinque, per andare al lavoro». Alle otto, in ogni caso, dovranno lasciare tutti le camere.
Ci sono anche donne. A loro è riservata una zona al piano terra.

Nove letti, quasi sempre assegnati. Una signora dell'est vuol sapere se perderà il posto: «Mi hanno preso in prova, non ci sarò per due giorni ma bisogna vedere come andrà a finire». La struttura è accogliente, si può guardare la tv ma quasi tutti vanno subito di sopra. «Niente alcol, niente animali», chiarisce il regolamento affisso alla parete. Le stanze, ordinate, variano da un minimo di due a un massimo di sei letti. Ma gli spazi non bastano ed è prevista una permanenza massima di trenta giorni, poi bisogna lasciare il posto a qualcun altro e sperare di essere richiamati presto. E così non manca chi si presenta al bancone solo per chiedere di ritirare il suo sacchetto, lasciato in custodia al dormitorio. Poi saluta e se ne va a dormire chissà dove, all'aperto, al gelo.

I volontari tengono un diario di bordo. Un quadernone giallo, su cui scrivono tutto quello che succede, dalle 20 all'alba. Annotano chi arriva in ritardo e perché, se qualcuno esce prima del previsto o si presenta alticcio. Le pagine raccontano anche di chi non c'è più. Morto nel sonno, al dormitorio, sfiancato da una vita di stenti.
Michele Sada

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