«Non ha avuto nessuna pietà
Arrighi meritava l'ergastolo»

La pena "giusta", per Alberto Arrighi, doveva essere quella dell'ergastolo. Lo scrivono i giudici della corte d'Assise d'appello di Milano, nella motivazione della sentenza con cui, lo scorso 16 aprile, l'ex negoziante di via Garibaldi si era visto confermare la condanna a 30 anni inflitta in primo grado a Como.

COMO La pena "giusta", per Alberto Arrighi, doveva essere quella dell'ergastolo. Lo scrivono i giudici della corte d'Assise d'appello di Milano, nella motivazione della sentenza con cui, lo scorso 16 aprile, l'ex negoziante di via Garibaldi si era visto confermare la condanna a 30 anni inflitta in primo grado a Como.
Secondo i giudici milanesi, anche tenendo conto della riduzione prevista dal rito abbreviato, un reato grave quanto l'omicidio e la decapitazione di Giacomo Brambilla, avrebbe dovuto essere sanzionato con il massimo della pena prevista dal Codice, cioè l'ergastolo, sia pure senza isolamento diurno, perché "scontato" in virtù del rito, che prevede lo sconto.
L'analisi dei giudici milanesi è durissima. Anziché accettare le conseguenze dell'uccisione del suo socio, «degli (Arrighi, ndr)ha convinto il suocero a compiere quelle efferate manovre (la decapitazione, ndr) per occultare l'accaduto, gettando il corpo in una zona lontana, in una discarica, decapitando la vittima e portando poi la testa mozzata nel forno della pizzeria, con l'avvertenza di non perdere i proiettili che il fuoco poteva fare cadere nel forno stesso con l'immergere il capo in una bacinella d'acqua. Non pago di questa incredibile mancanza di pietà, si è impossessato del denaro contante del Brambilla, che ha occultato sia nell'armeria sia nel locale del suocero».
Sulla condotta processuale (in aula a Milano Arrighi aveva ammesso la premeditazione del delitto), il tribunale scrive di un'ammissione di «solo ciò che non si poteva negare», con l'intento di «gettare addosso alla vittima responsabilità senza riuscire a provare quanto affermato». Ce n'è anche per il rapporto con la moglie Daniela La Rosa: i giudici milanesi definiscono «incredibile», dal «tono banale», un sms che la signora, venuta a conoscenza dell'omicidio, invia a suo marito Alberto: «Chiamami quando vai a Senna, così mi racconti come è andata al poligono e come stai, se hai fame... Ti amo».
Quel messaggio, secondo la corte d'Appello, serviva a dimostrare l'estraneità dall'omicidio, a dimostrare, «in caso di futuri accertamenti la normalità della giornata».

Leggi l'approfondimento su La Provincia in edicola giovedì 8 giugno

© RIPRODUZIONE RISERVATA