Signori, giù il cappello
per l'ex rockstar Sting

 Sting ha ripreso in mano le sorti del suo destino e dopo il capitolo dedicato alle musiche rinascimentali di John Dowland ora licenzia "If On A Winter’s Night…", un album intimo, delicato, caldo come solo certi inverni sanno essere (nei negozi dal 26 ottobre)

COMO Sting capitolo secondo. Dimentichiamo tutti la rockstar che nell’ultima sua fase sembrava un po’ appannata (Sacred Love) andando in giro vestito come un ragazzino e facendo le bizze in tivvù (sul divano della Dandini). Sting ha ripreso in mano le sorti del suo destino e dopo il capitolo dedicato alle musiche rinascimentali di John Dowland ora licenzia If On A Winter’s Night…, un album intimo, delicato, caldo come solo certi inverni sanno essere (nei negozi dal 26 ottobre). È all’immaginario dell’inverno che il disco è dedicato, e a tutto quello che può girarci attorno. I brani sono essenzialmente carole natalizie, ninna nanne o più semplicemente traditionals inglesi a cui Sting sembra sempre più legato. La strumentazione è ricca, compaiono le ormai abituali northumbrian pipes di Kathryn Tickell, archi di varia natura, in quasi tutti i brani lascia il contrabbasso a Ira Coleman (uno dei più versatili musicisti jazz sulla scena) e, sempre al suo fianco, il fido Dominic Miller alla chitarra a dare manforte agli arrangiamenti. Sting è sempre stato un artista con un importante profilo intellettuale: pienamente anglosassone, an english man in New York, e quindi proverbialmente poco accademico. Un musicista che è piacevole ascoltare anche una volta sceso dal palco per la capacità di riflettere (poco importa se a priori o successivamente) su quello che fa. Senza spocchia, sebbene le cronache lo vogliano da sempre un vanaglorioso. In If On A Winter’s Night… non è da meno, nel dvd accluso all’edizione deluxe i suoi commenti sono sempre puntuali. L’inverno, dunque, la sua affiliazione al Natale, i contrasti e i doppi che da qui si dipanano: ad esempio perché le ninna nanne, quantomeno quelle venate di ascendenza gotica, hanno sempre questa doppia anima nel cullare i sonni di un bambino ma se poi se se ne ascoltano i testi questi parlano quasi sempre di mostri e figure tutt’altro che rassicuranti? Sting affronta questi temi da una prospettiva agnostica, ma come d’abitudine se ne lascia affascinare sotto il profilo culturale. Ecco perché l’operazione riesce: c’è il motore della curiosità a muovere tutto. Cherry Tree Carol mette in scena Maria e Giuseppe in una veste particolarmente umana: in viaggio verso l’Egitto Maria chiede al marito (?) di procurarle delle ciliegie e questi con rabbia le risponde di farsele portare dal padre del bambino. Christmas At Sea è invece una vera e propria ciliegia musicale: Sting è perfetto nell’intonazione al suo canto-recitazione del poema di Robert Luis Stevenson e la seconda voce dell’arpista Mary Macmaster, sovente accompagnata dalle aperture armoniche degl’archi, ha l’impatto di un coro. A fare il paio c’è The Burning Babe, altra storia macabra scritta dal martire gesuita inglese Robert Southwell e della cui partita fanno parte anche Jack Dejohnette alla batteria e Cyro Baptista alle percussioni che ne enfatizzano l’andamento. Buona l’idea d’inserire una rilettura di The Hounds Of Winter, tratto dall’album Mercury Falling. Lì apriva e chiudeva il brano un carezzevole press-roll di Vinnie Colaiuta, qui è interessante il cameo di David Sancious all’organo che nel finale s’intreccia al tema dei violini. Per chi ne temesse una compromissione, quindi, Sting sa ancora circondarsi di musicisti formidabili. La voce stessa sembra essere tornata ai momenti migliori, persi gli acuti dei Police il timbro e la melodia fluiscono maturi. Tanto che sussurri un verso, quanto che lo sostenga con vigore. Sembra solo chiedere un po’ più d’attenzione all’ascoltatore rispetto a quando faceva la rockstar.
Andrea Di Gennaro

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