’Ndrangheta, l’antimafia accusa
«I testimoni sono terrorizzati»

Scoppia un nuovo caso durante le udienze nel processo sulle violenze a Cantù. Il titolare del Grill House cambia versione rispetto al verbale dei carabinieri: «Era spaventato»

Emergono chiaramente due mondi paralleli e inconciliabili, dalle udienze sulle violenze stile Locri in piazza Garibaldi a Cantù. Da un lato il mondo durante l’inchiesta, i verbali zeppi d’accuse resi dai testimoni al sicuro in una stanza della caserma dei carabinieri.

Dall’altro quelle stesse testimonianze annacquate da “non ricordo, non so, non l’ho mai detto” riferite nell’aula del Tribunale, di fronte ad accusa, giudici, difese e imputati (ancorché collegati in videoconferenza da Opera), dove il «gruppo di calabresi che entrava nel mio bar, si sedeva, ordinava, non pagava, buttava panini a terra, fumava nel locale» e faceva fuggire «i clienti» che «spaventati hanno iniziato a non entrare più», costringendo il titolare a chiudere, si trasforma in «non avevo paura».

«I debiti? Sono normali, poi tornavano a pagare. Calabresi? È lei, pubblico ministero, a voler puntare sui calabresi. Io di calabresi non ne conosco».

La testimonianza di esordio, nell’udienza di ieri nel processo sul presunto tentativo di un clan calabresi di mettere le mani sulla movida canturina, solleva un nuovo vespaio attorno al dibattimento in corso a Como: alcune testimonianze sarebbero viziate «dalla paura». A lanciare l’accusa è il pubblico ministero Sara Ombra, della Procura antimafia, che alla fine del faticosissimo racconto dell’ex gestore del Grill House di via Corbetta ha preso la parola per sottolineare «le contraddizioni emerse tra i verbali resi dall’uomo davanti ai carabinieri, e le parole pronunciate in aula. Un atteggiamento determinato dalla paura. E la conferma arriva dal fatto che, quando ci furono gli arresti e i giornali pubblicarono le sue dichiarazioni, si presentò dai carabinieri spaventato. Con la moglie che, addirittura, si sentì male».

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