Di lotta e governo
Le due leghe e il futuro

Nella commediola “Notte prima degli esami” (non questo gran che, ma si è visto di peggio negli ultimi anni), c’è il personaggio di Max che, quando scopre che la fidanzatina è incinta, smette ufficialmente i panni del “cazzaro” per diventare, solo per poco però, maturo e responsabile.

È la metafora di quanto accaduto a Salvini, la cui conversione moderata ed europeista è durata giusto il tempo di inserire i ministri e i sottosegretari leghisti nel governo Draghi. Poi è bastato il sovranismo vaccinale dell’ungherese Orban e dell’austriaco Kurz per riportarci il torrenziale parolaio con tendenze estremiste di prima. Del resto, si sa, è il destino della politica far sì che i vuoti si riempiano sempre. E ai silenzi di Draghi, per quanto assordanti vista la trafila di siluramenti eccellenti di questi giorni, e forse è solo l’inizio, si contrappone perciò la logorrea del capo della Lega, partito che, peraltro, nell’esecutivo guidato dall’ex presidente della Bce è rappresentato nel modo più autorevole da un altro personaggio che le parole bisogna cavargliele con le tenaglie: Giancarlo Giorgetti. Costui è uno dei pochi trait d’union tra il vecchio Carroccio di Umberto Bossi e il nuovo modello carrozzato Salvini che ha sostituito la targa “Nord” con quella “Italia”. Pare che Giorgetti sia uno dei pochi ministri tenuto in considerazione dal nuovo presidente del Consiglio, assieme ai tecnici che quest’ultimo ha scelto e piazzato nei posti chiave.

Tra il leghista, piuttosto ferrato in materia economica ,e il premier c’è una consolidata consuetudine, anche se non è facile immaginare i loro colloqui: un dialogo tra due muti. Forse si esprimeranno a gesti o attraverso i disegnini. Chissà. Sta di fatto che Giorgetti rappresenta una Lega di governo che non è quella di lotta incarnata da Salvini dal giorno in cui, la sua esperienza ministeriale è stata arrestata sul bagnasciuga del Papeete di Milano Marittima. Il ministro allo Sviluppo Economico è entrato nella squadra di Draghi anche per far sì che la montagna di miliardi del Recovery sia soprattutto l’humus che possa tornare a rendere fertili i settori produttivi del Nord e non le clientele e l’assistenzialismo. Né lui né gli altri esponenti leghisti nel governopossono essere considerati salviniani al 100 per 100. Anzi, il neo titolare del riesumato ministero del Turismo, Massimo Garavaglia, è stato contestato perché sul suo sito personale campeggia un “prima il Nord”, non proprio un motto nazional sovranista.

Insomma, pare che le leghe siano davvero due, ciascuna con obiettivi e strategie diverse: quella felpata e moderata di Giorgetti e l’urlata , anche in materia di politica sanitaria, del segretario. Può darsi che sia solo un gioco delle parti, l’eterna riproposizione del poliziotto buono e di quello cattivo. Con Salvini che, in questo modo, tenta di preservare il patrimonio di consensi dall’appetito predatorio dell’alleata Giorgia Meloni, ora unica intestataria dell’opposizione parlamentare al governo.

Ma è chiaro che prima o poi potrebbe esserci un redde rationem. Quando si arriverà alle elezioni, quale sarà la linea che il principale partito, stando ai sondaggi, proporrà agli italiani? Quella pragmatica, giocoforza europeista di Giorgetti e Zaia o il sovranismo che l’afasia di Bruxelles sui vaccini rischia di far rinvigorire, incarnato da Salvini? Certo, per ora si può anche andare avanti così, conviene a tutti e magari anche al paese. Meglio se il leader parla e il ministro fa. Poi però, chissà. Anche perché la nascita del governone di Mario Draghi ha aperto una serie di contraddizioni dentro il centrodestra che, alla lunga, potrebbero allargarsi. E magari far cascare qualcuno dentro.

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