Il dubbio della fede
nell’umana fragilità

Narra la leggenda che Madre Teresa abbia passato larga parte della sua esistenza da perfetta atea. Ma non è una leggenda. In diverse occasioni pronunciò e scrisse parole sulla fede che nessuno al mondo avrebbe mai potuto sospettare. Parole sconvolgenti. «Dicono che la pena eterna che soffrono le anime dell’inferno è la perdita di Dio… Nella mia anima io sperimento proprio questa terribile pena del danno, di Dio che non mi vuole, di Dio che non è Dio, di Dio che in realtà non esiste. Gesù, ti prego, perdona la mia bestemmia».

Chissà da dove sgorgavano queste riflessioni terribili in una santa come lei. Troppo dolore, forse. Troppa ingiustizia. Troppa insensatezza. Troppe malattie. Troppe carni macellate, putride, marcite, abbandonate. Troppa morte, semplicemente. Pensosi concetti da seminario filosofico che diventano insopportabili, intollerabili se si sperimentano negli angoli più sperduti e abbandonati e maledetti della terra, là dove pare che la vita nulla conti, nulla valga e che, soprattutto, a nessuno importi. C’è un dolore tutto esistenziale, una sofferenza indicibile dentro l’assenza di Dio che prova Madre Teresa, che l’avvicina ai grandi mistici e che le fa interpretare questo “ateismo” come una missione di solidarietà, di espiazione: «Voglio vivere in questo mondo così lontano da Dio e che ha voltato le spalle alla luce di Gesù, per aiutare la gente, prendendo su di me qualcosa della loro sofferenza». Che è poi quello che dice la missionaria messa in scena da Sorrentino ne “La Grande bellezza: «La povertà non si racconta, si vive».

È per questo motivo che c’è qualcosa di commovente nella rivelazione che Papa Bergoglio ha affidato a un libro-intervista in uscita in Francia, nel quale racconta delle sedute che ha sostenuto con una psicanalista ebrea quando aveva quarant’anni: «C’è stato un momento della mia vita in cui ho avuto bisogno di andare a consulto. Per sei mesi mi sono recato da lei una volta la settimana per chiarire certe cose. E poi, un giorno, quando stava per morire, mi ha chiamato. Non perché le amministrassi i sacramenti, ma per un dialogo spirituale». In poche righe, c’è tutto un mondo. Un universo. Il suo, quello del Papa. Il nostro, quello di noi nullità. E sappiamo bene cosa fossero quelle cose da chiarire. La fragilità. La paura dell’abisso. I demoni. Il tempo che passa e sbriciola. L’inadeguatezza. E il riferimento immediato è “Habemus Papam” - ennesimo film profetico di Nanni Moretti - che si basa sull’intuizione formidabile dell’angoscia del Papa appena eletto di non essere all’altezza del ruolo, del terrore dell’enorme peso che lo schiaccia, del panico che prende l’uomo di fronte al vuoto tanto da farlo fuggire dalle responsabilità per rifugiarsi sul lettino di uno psicanalista. Come sempre in Moretti, l’intuizione è folgorante, lo sviluppo del film, nonostante la grande interpretazione di Michel Piccoli, molto meno, ma il sasso nello stagno era comunque gettato. Ed è stato ripreso con un’operazione ambiziosissima da Sorrentino, che in “The Young Pope” - serie tv magnifica, anche se non priva di banalità e luoghi comuni - tratteggia un Papa tormentato dal trauma della perdita e dell’abbandono.

È così toccante cogliere la fragilità negli uomini, in tutti gli uomini. È così umano intuire, anche in chi per funzione dovrebbe dispensare certezze, la ricerca inesausta del senso delle cose, la domanda assillante su cosa significhi questa roba, questo circo, questa baracconata, questa messa in scena e su a chi serva e a chi giovi e che ci faccia io qui e il tempo e il silenzio, il perché di questo silenzio continuo, assoluto, disumano nel bel mezzo del blaterare, dell’urlare, dello strillare e delle geremiadi che ci perseguitano ogni giorno. La modernità che tanto celebriamo, e dalla quale ovviamente non si può tornare indietro, ha commesso un unico vero peccato mortale. Ha svuotato il cielo, ha sostituito la fede con la tecnica, illudendo l’uomo che tutto fosse possibile, tutto codificabile, tutto modificabile. E se l’uomo si crede libero e indipendente, artefice e fine ultimo del suo destino, se il sacro scolora sullo sfondo, allora ogni cosa può essere fatta. Tutto è lecito, come scriveva Dostoevskij. E quando Prometeo si libera, allora è una maledizione.

È per questo che è così difficile credere oggi. La piccola mente dell’uomo moderno non trova più riferimenti certi, porti, approdi, mete, direzioni e inizia ad annaspare nel vasto mare del relativismo. E se vanno in crisi i laici, perché non deve accadere ancora di più ai sacerdoti, che hanno su di sé la missione insopportabile di portare la parola della verità in un mondo che mai come ora la rifugge, visto che preferisce costruirsene una alla carta, da cambiare ogni giorno a seconda della convenienza? È un peso intollerabile. Una sfida da titani. Chissà quanta solitudine, quanta coscienza della propria pochezza, quanto dolore in questi poveri sacerdoti che dovrebbero dare conforto agli altri e forse invece ne avrebbero bisogno molto più degli altri. Perché è questo, per un’istituzione che ha resistito a tutto e a tutti per millenni, il momento più difficile, il momento in cui il dominio della tecnica, per quanto rivestito da colate di panna montata e zucchero filato per intortare noi popolo bue, sta assumendo i tratti sinistri della circonvenzione antropologica e della dittatura del pensiero unico conformista politicamente corretto. Dentro il quale non c’è alcun posto per lo scandalo di Dio.

L’uomo di fede in crisi è il contrario della certezza della fede. Ma la certezza è ottusa. E arrogante. La speranza, invece, è come un polline che non fiorisce mai, ma che profuma l’aria e che ci dà la forza per scommettere. Anche senza Freud. Lo scriveva Pascal in uno dei suoi passi più celebri: «Dio esiste o non esiste. Su quale delle due ipotesi volete scommettere? Ma io non intendo scommettere affatto! Scommettere è necessario, non facoltativo: anche voi siete incastrato».

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@Diegominonzio

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