Io, impiegato di banca
costretto a imbrogliare i clienti

La testimonianza-appello di un bancario svela come la vendita dei prodotti finanziari sono spesso spinti dalle banche solo per far cassa e per raggiungere il budget fissato all'inizio dell'anno. Tutto a ascapito dei risparmiatori.

A guardarsi intorno sembra che ogni crac finanziario colpisca, un po’ così, all’improvviso. Un terremoto, una bufera, una tempesta sui bilanci e sui portafogli delle famiglie e dei piccoli risparmiatori. Così è capitato per Cirio, Parmalat, per i bond Argentina, per le obbligazioni Giacomelli e via ricordando. Ora per i titoli Lehman. E sul banco degli imputati finiscono quasi sempre loro, i bancari, gli impiegati che da dietro lo sportello vengono accusati, dopo, di un diffuso analfabetismo finanziario e di una contagiosa mala gestione del rapporto banca-cliente, di tenere nascoste le verità che governano i mercati finanziari, i rapporti con le banche, la scelta di un mutuo o di un fondo d’investimento. Spesso sotto accusa, forse troppo spesso, ora alzano la testa. Un’impennata di orgoglio perché si sentono a loro volta «vittime di un sistema che li sta sgretolando», che li sta «schiacciando sotto il peso di ordini e di ricatti dall’alto, sotto politiche commerciali aggressive, che utilizzano il personale in misura strumentale per raggiungere una maggior redditività estraniando il valore sociale del lavoro e della persona». Ma soprattutto che li sta dipingendo come non sono. «Credevamo che tutto fosse finito con l’Argentina, il latte e i pomodori pelati. Speravamo, che la lezione di allora potesse servire per ritrovare un codice etico smarrito e con essa la fiducia della gente nelle banche. Non è stato così. Abbiamo letto e ascoltato personaggi più o meno illustri. Purtroppo, tra queste voci ce ne sono state alcune stonate, che con un sarcasmo fuori luogo hanno chiamato sul banco degli imputati i dipendenti delle banche e non i banchieri o gli amministratori delegati che le governano». Il richiamo è diretto. A scendere in campo, questa volta è uno di loro. Un impiegato. È anche un rappresentante sindacale, e per questo «può parlare». È Dino Merio, impiegato da 30 anni, dipendente di una banca sul territorio, segretario provinciale della Fiba Cisl, uno dei sindacati di riferimento dell’intera categoria. Esce allo scoperto perché sta ricevendo ogni giorno la voce dei suoi colleghi da dietro lo sportello, stanchi di essere additati ogni giorno come i responsabili del fallimento di famiglie, di risparmi bruciati, di sentirsi responsabili della bancarotta di un pensionato, di un piccolo risparmiatore. Merio vuole spiegare che cosa c’è dietro questo lavoro. E lo fa per far «conoscere una parte di realtà bancaria che sfugge a tutti. C’è un grave problema irrisolto dietro lo sportello - racconta Merio - e che si traduce in un profondo malessere della categoria. Si chiama "pressione commerciale" cui sono sottoposti i dipendenti della stragrande maggioranza delle banche. Pressioni quotidiane formulate a voce (spesso alterata), attraverso telefono o una mail - spiega Merio - che spingono il dipendente a vendere prodotti non necessariamente richiesti dalla clientela, ma espressamente "caldeggiati" dalle direzioni e solo perché più remunerativi per la banca». Usa il termine «caldeggiati», ma sa benissimo che si tratta di vere e proprie «ritorsioni e minacce» che vanno dal trasferimento, alla revoca delle ferie, del part-time, allo stop della carriera. E così racconta due episodi, estremamente significativi. «Sì sono due casi che dimostrano l’integrità morale tutt’ora presente nella stragrande maggioranza degli impiegati bancari. Il primo: una dipendente, madre di tre figli, di un grosso gruppo bancario. Davanti ha una pensionata con una piccola somma da investire. È naturale pensare a titoli di stato a breve. E’ in atto però, in quella banca, una campagna prodotto che riguarda una polizza index linked dalla durata pluriennale, che prevede un guadagno immediato per l’azienda, il cosiddetto up front, del 5% secco contro lo zero e pochi centesimi dei titoli di Stato. Ovvio che ci siano pressioni per collocare questo prodotto. Alla dipendente farebbe anche comodo proporre la polizza in quanto raggiungerebbe prima il budget che l’azienda le ha imposto. Ma professionalità e senso etico le impediscono di compiere questa operazione. La polizza - racconta Merio - non era adeguata alle necessità della cliente, era più logico un titolo di stato. E così ha fatto. Il risultato? Appena il tempo di concludere l’operazione - racconta Merio - e la collega è stata richiamata pesantemente dal direttore di filiale e poi dal capo area con la minaccia di essere trasferita se la prossima volta si fosse rifiutata di rispettare le politiche aziendali. Simile il secondo caso. Un dipendente, che non propone i prodotti che il proprio istituto ha interesse a collocare ma si attiene al profilo e alle esigenze del cliente optando, anche qui, per un titolo di Stato. Il richiamo del superiore è stato di questo tenore. «Ma i soldi a fine mese chi te li dà? La banca dove lavori o lo Stato? Pensa a vendere solo quello che ti diciamo e basta». Questo il trattamento per chi lavora da tempo. Per i giovani assunti, quasi tutti con contratti a termine, dopo un breve tirocinio e con una formazione interna, il più delle volte approssimativa, vengono indirizzati al commerciale per la vendita di prodotti finanziari. «Con poca o nulla esperienza alle spalle - riprende Merio - e con un contratto che scadrà dopo qualche mese e che forse verrà rinnovato, non avranno altra scelta se non quella di assecondare il volere dei vertici. Se vorranno mantenere il posto di lavoro». Un clima di «ricatto e tensione costante», amplificato dalle nuove responsabilità individuali introdotte dalle regole europee della Mifid, a cui Merio contrappone una domanda: come intervenire? «Continuando a raccogliere prove e testimonianze dai vari territori - risponde - per trasmetterle poi ai vertici nazionali e aziendali delle organizzazioni sindacali e inchiodare le banche alle proprie responsabilità e farle desistere da una politica sconsiderata non più sostenibile né dal lavoratore né dai risparmiatori». È il tentativo di mettere uno stop. Di dire basta. E per questa svolta Merio fa appello a partire dai suoi colleghi bancari. «Da loro può venire una spinta per il cambiamento, certo richiede coraggio collettivo per smettere di vendere un prodotto e insieme anche la nostra etica, dove l’autonomia individuale è limitata se non addirittura negata e la dignità del lavoratore calpestata». Ora anche dalle banche è attesa una risposta.
Simone Casiraghi

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