L’odio è sentimento
Assurdo vietarlo

La gente beve. A ennesima dimostrazione dell’arietta che tira, della voglia strisciante di censura che si annida tra i palazzi del potere e, cosa molto più grave, nell’immaginario collettivo di noi italiani brava gente, un paio di giorni fa l’Autorità garante per le comunicazioni ne ha combinata un’altra delle sue.

Non paga del mirabolante lavoro al servizio dell’informazione libera, democratica e trasparente dimostrato in questi anni e che ha fatto dell’Italia la vera repubblica delle banane del mondo occidentale, l’Agcom è riuscita a varare un provvedimento che vieta agli editori di giornali e televisioni, ma anche ai social network, “ogni espressione di odio che incoraggi alla violenza e all’intolleranza”. In caso di infrazione a questo principio, il regolamento prevede una contestazione del comportamento ritenuto reo, una diffida dal continuare la condotta illegittima e, infine, una sanzione tra il due e il cinque per cento del fatturato aziendale complessivo. Tutto vero. Bisogna sempre diffidare dei moralisti, dei perbenisti, degli educatori, dei pedagoghi. Perché dietro quella stucchevole facciata di buone intenzioni e di preclari valori etici - scusate, chi non è contro la violenza e l’intolleranza? – si nasconde sempre lo zampino infido e fanghiglioso del censore. Il nobile intento dell’Agicom è quello di prosciugare la palude dell’odio. E siamo tutti d’accordo. Ma c’è un piccolo problema. L’odio è un sentimento, però i sentimenti non possono essere reati e dunque neppure puniti da un organo di uno Stato di diritto. Allo stesso modo, nessuno può essere condannato per il fatto di dichiararsi fascista o nazista o stalinista e polpottista mentre invece può esserlo se tenta di mettere in atto quelle idee. Nessuno può essere condannato se afferma di odiare qualcuno, ma solo se quest’odio arriva a una manifestazione pratica.

E poi, di grazia, cosa significa “espressione di odio”? Ognuno di noi la percepisce e la valuta in modo diverso, ognuno di noi possiede un grado di sensibilità differente rispetto a un altro e a seconda del tema. Uno può odiare a morte per una questione calcistica e risultare del tutto indifferente a una politica, può farsi il sangue amaro per un tema razziale e ignorarne uno religioso. Qual è il punto di svolta, quello del non ritorno, quel momento dopo il quale si esce dal diritto di opinione e si entra in quello dell’incitamento alla violenza e all’intolleranza? E chi lo stabilisce? A che titolo? Da chi dovrebbe essere composto il sinedrio dei saggi, il senato degli scienziati, il conclave dei cervelloni, il circolo degli intelligentoni, dei sapienti, dei depositari della verità rivelata che permette a loro - e solo a loro - di distinguere il grano dal loglio, il bene dal male, la provocazione dalla diffamazione? Chi li nomina? Chi li incarica? Chi li delega? Chi li controlla?

Questa è una grande truffa, un grande inganno che sotto la coltre farisea della difesa degli ultimi, degli inermi e dei diversi cova una strategia da Minculpop, da tribunale del conformismo, da polizia linguistica, da cassazione del politicamente corretto che impedisce la libertà di espressione a chiunque, a torto o a ragione, la pensi diversamente da lei. Che poi, guarda caso, è proprio quello che stanno già facendo giganti come Facebook, che provvede a censurare notizie, commenti o video non rispondenti all’etica comune. Cioè alla sua. Ora, nessuno vuol negare la marea di schifo, vomito e spurghi di ogni genere che galleggia, sgorga e rimbalza nella grande sentina digitale, né la carica di arbitrio e contraffazione che impregna quei canali, così come è evidente che tutta la storia dei media - e del mondo - è infettata dall’uso distorto e manipolatorio delle notizie. Ma è anche certo che il peggiore dei rimedi è quello di affidare in toto a un tribunale etico il marchio di garanzia dell’informazione stessa.

Non c’è niente da fare. È la misera storia di questo povero paese, nel quale non è mai esistita né mai esisterà una seppur minima cultura di pensiero liberale e individualista, che ritiene inviolabile la libertà di espressione di ogni uomo e che invece da sempre viene sopraffatta da un pensiero totalitario che punta a modellare l’uomo gregge, l’uomo pecorone, il tifoso da stadio, il popolo bue, la gente, la massa che si abbevera alle parole d’ordine del demagogo, del capopopolo, dell’unto del signore, del masaniello di turno, che dice al volgo cosa pensare, cosa dire, cosa scrivere, cosa votare. E se uno volesse scrivere qualcosa contro l’aborto, ad esempio, vero Moloch del pensiero unico conformista? Siamo sicuri che potrà farlo? A che punto calerà la mannaia dell’incitamento all’odio? E se un altro volesse esprimere una tesi contro l’eutanasia, dopo quanti minuti arriverebbe la santa inquisizione dell’Agcom? E se uno fosse contrario all’utero in affitto o ai matrimoni gay, dopo quanti nanosecondi verrebbe multato? E per converso, con quale taglio al fatturato verrebbe penalizzato chi esaltasse gli anni d’oro dell’Urss, che aveva abolito la borghesia e portato il popolo nei palazzi del potere? E perché mai non può sostenerlo? Perché non si può dire che il #metoo è una buffonata o che il termine “terrone” non è più un’offesa o che non c’è alcuna differenza tra lager e gulag? Perché uno non può criticare gli immigrati, ma anche i poliziotti, i musulmani, ma anche gli ebrei, gli atei, ma anche i bacchettoni, le donne in carriera, ma anche gli uomini che stirano le camice, il falso nueve, ma anche la difesa a tre? Perché non si può dire? Perché?

In uno Stato civile c’è solo un doppio argine alla libera informazione: il codice penale e il codice civile. Quello è il limite, quanto stabilito dalla legge e quanto valutato, caso per caso, da un giudice imparziale che difenda chi è stato diffamato, insultato o minacciato. Punto. Tutto il resto sono solo le chiacchiere e i distintivi di chi vuole tenere al guinzaglio quelli a cui piace scodinzolare.

@DiegoMinonzio

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