’Ndrangheta: se il problema
è anche solo parlarne

«La beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è stato convincere il mondo che lui non esiste». La folgorante battuta pronunciata da un ispirato Kevin Spacey nell’abbacinante film “I soliti sospetti” sembra tagliata su misura per le nostre province. E per quel diavolo che, a queste latitudini, ha preso le sembianze della ‘ndrangheta. Latitudini lariane nelle quali, a dispetto di dieci anni di blitz antimafia, di ben cinque locali di ‘ndrangheta scoperti appena oltre lo zerbino di casa in provincia di Como e altre due nel Lecchese, di cinquecento atti intimidatori, di almeno quattro omicidi in odor di criminalità organizzata, di una cinquantina di “comaschi” condannati in via definitiva per associazione di stampo mafioso, di un’azienda lecchese consegnata ai clan calabresi e usata per riempire di veleni i cantieri di mezza Lombardia, ancora oggi riesce a bollare la notizia di un cartello stradale crivellato di colpi d’arma da fuoco come un tentativo di «infangare la reputazione di un paese, di una comunità, della gente».

Lo spunto per rinfrescare la memoria su cosa voglia dire convivere con la criminalità organizzata è lo sfogo di una consigliera comunale di minoranza di Fino Mornasco - messa anche sotto scorta per essere stata oggetto di chiacchiere tra mafiosi, intercettate dai carabinieri del Ros - che ha annunciato l’intenzione di ritirarsi dalla politica perché ormai «parlare di criminalità organizzata per tanti cittadini e rappresentanti politici è solo un tentativo di screditare, di infangare il buon nome della comunità». Tradotto: il diavolo non esiste, guai a chi dice il contrario. E non esiste da un lato perché - evidentemente - è più tranquillizzante che non se ne parli e dall’altro perché, insomma, ormai sono passati tre anni dagli arresti dell’antimafia.

Anche questa è un’altra delle beffe preferite di quel Satana chiamato ’ndrangheta. Perché dopo l’operazione “La notte dei fiori di San Vito” in molti avevano pensato che il fenomeno fosse stato debellato. La metastasi sconfitta. Il male estirpato.

Un paio di anni fa il giudice che aveva messo nero su bianco la condanna collettiva dei presunti affiliati ai clan lariani della ’ndrangheta, aveva sottolineato che «l’esistenza di un clima di diffusa intimidazione e di conseguente omertà nel territorio lombardo, anche nello specifico territorio di Cermenate, Calolziocorte e Fino Mornasco, era stato già oggetto di accertamento» proprio con l’operazione contro il clan Mazzaferro di metà anni Novanta. E a quelli che si sono stupiti, vent’anni più tardi, dei nuovi arresti lo stesso giudice ricordava che «ad oggi non si può certo più dire che la mafia al nord sia una novità, anzi, si è dimostrato aver colonizzato ampiamente il nord ed essersi radicata sul territorio». A ben rileggere queste parole, il vero tentativo di «infangare la reputazione di un paese» e dei suoi cittadini è abbassare la guardia negando che il problema esista.

«La musica può cambiare, ma per il resto... ma per il resto siamo sempre noi e noi non possiamo mai cambiare» chiosava - intercettato dai Ros - Michelangelo Chindamo, condannato negli anni Novanta in quanto capo della locale di Fino Mornasco e riarrestato - e ricondannato in due gradi di giudizio - vent’anni più tardi sempre in quanto capo della stessa locale di ’ndrangheta.

«Il quadro è obiettivamente inquietante» è il commento che si trova nella motivazione della sentenza di condanna del procedimento Insubria - a proposito: leggere gli atti processuali potrebbe aiutare gli amministratori a comprendere il mondo della terra di mezzo e a evitare di banalizzare un fenomeno come quello della ’ndrangheta - «sia in considerazione del numero degli atti intimidatori» registrati nel Comasco e nel Lecchese nel recente passato «sia in considerazione del fatto che quasi tutti gli episodi siano caratterizzati dall’omertà delle vittime che hanno dichiarato di non avere sospetti su nessuno o di non aver ricevuto pressioni o minacce» salvo poi scoprire l’esatto contrario grazie alle inchieste. Una «omertà generata dal pervasivo controllo del territorio operato dalle locali» legate ai clan calabresi. Un controllo pervasivo ammesso, con i carabinieri del Ros, dallo stesso primo cittadino di Fino: «Si percepisce la presenza della ’ndrangheta nel territorio del Comune?» chiedono i carabinieri. Risposta: «Sì, si coglie dalla ritrosia delle persone ad affrontare l’argomento. Intimorisce solo nominare la parola ’ndrangheta. So che qualche imprenditore e commerciante non vuole che se ne parli». Perché se il diavolo non esiste è meglio per tutti. Soprattutto per il diavolo.

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