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Giovedì 03 Luglio 2008
Odissea al Pronto Soccorso
Al Sant'anna 8 ore di attesa
La testimonianza di un cittadino: entrato alle 18 e uscito alle 2 di notte
COMO La diagnosi? Otto ore dopo l'arrivo al Pronto soccorso. È quanto accaduto nei giorni scorsi a un cittadino comasco, accompagnato al Sant'Anna da un parente a causa di forti dolori addominali. Giunto al Pronto soccorso alle 18, il paziente ha lasciato la struttura quando mancavano cinque minuti alle 2. Un'esperienza incredibile, raccontata con dovizia di particolari da chi accompagnava l'uomo e che qui riportiamo integralmente.
Otto ore: un'intera giornata lavorativa di estenuante, devastante attesa per avere una diagnosi di artrosi. Delle otto ore, soltanto un'ora e un quarto è servita per visite e analisi, il resto è stato semplicemente "aspettare".
Ma anche oltre sette ore per racimolare quattro punti di sutura su una gamba ferita e sanguinante, oppure sei ore per scoprire di avere una frattura al coccige e andarsene semi immobilizzati dall'ospedale.
Il menù è dei più vari al Pronto Soccorso del Sant'Anna, probabilmente in questi giorni particolarmente affollato per via del caldo, certamente inadeguato ad assolvere la funzione di primo terminale cittadino per le emergenze.
Parliamo di un pomeriggio di ordinaria follia, in cui le colpe di un simile disservizio, perché con queste tempistiche è difficile usare altri termini, non vanno certo addossate al personale, che, impegnato in un'attività frenetica e delicatissima, ha il solo torto di essere poco, in una struttura che meriterebbe ben altri spazi e ben altri organici.
Si arriva al Sant'Anna che sono passate le 18 da qualche minuto. L'utente, un settantenne, è quasi bloccato da un forte dolore addominale e inguinale, addebitato inizialmente a due ernie fastidiose. A fatica si guadagna l'accettazione, dove non ci sono carrozzine disponibili e ci si deve arrangiare come si può.
Alle 18.15 il check-in, in cui la privacy è un optional, ma non pretendiamo troppo, genera un tagliando con un numero di matricola che indica il grado di priorità del malato: codice verde, ovvero urgenza bassa, procrastinabile.
La precedenza va ai codici gialli e, soprattutto, ai codici rossi: i casi gravissimi. Lungo tutta l'attesa non ci saranno, per fortuna di tutti, codici rossi.
"Ci sarà un po' da aspettare", avvisa sinistra l'infermiera che effettua l'accettazione.
A fatica il malato si siede su una poltroncina in sala d'attesa. Fortunatamente, i climatizzatori fanno il loro dovere. Malgrado il dolore, il morale non è basso. "Se ci mollano per le nove ci va bene" azzarda l'uomo, quasi volendo esorcizzare un presagio negativo.
Ci si mette il cuore in pace, non c'è scelta.
La prima ora passa, come sempre, abbastanza velocemente. Poi, lo sguardo compie l'errore di finire sul grande display luminoso che indica l'ordine di accettazione degli utenti. Ci sono tre codici gialli, di cui due, dice il pannello luminoso, già "visti", nessun rosso e una sfilza di codici verdi.
Sono le 19.30, ma la lista è ferma all'ultimo ingresso effettuato alle 17.35.
In "attesa" risultano comunque 14 persone. Il codice del dolorante settantenne afflitto dai dolori inguinali, per il momento, non compare. Brutto segno.
Il giornale viene letto e riletto, si inganna il tempo guardandosi in giro. Oddio, non è che in un pronto soccorso sia così gradevole, ma alternative di svago non ce ne sono.
Alle 20.30 il codice dell'uomo dolorante compare sul pannello, un sollievo immediatamente mortificato dall'andamento della situazione: in attesa, prima di esso, ci sono altre 14 persone.
Non moltissime, tutto sommato, viene da dire. Ma è il ritmo con cui la lista avanza a incutere terrore. In sala d'attesa ci sono anziani, bambini, traumatizzati di ogni genere, gente in preda ai conati di vomito. Una donna ha un occhio ormai chiuso da un gonfiore che sembra aumentare di ora in ora, il ragazzo dalla gamba ferita non ha potuto far meglio di appoggiarla su un muretto, cercando di limitare l'emorragia.
Tutti fissano il pannello luminoso, come fosse l'Oracolo. Ma è come fissare la lancetta di un orologio meccanico, che si muove talmente lentamente da sembrare immobile.
Alle 21.20, oltre tre ore dopo l'ingresso, qualcuno, da lontano, urla il nostro nome.
Davvero la sensazione è di essere tratti in salvo. Quasi si prova imbarazzo nel passare davanti alla gente che resta seduta in sala d'attesa e ti guarda sconsolata guadagnare il corridoio dove tutto succede.
Si approda a uno stanzino presidiato da un chirurgo che subito contribuisce a ridare morale alla truppa. È una donna energica e gentile che fa accomodare il malato sul lettino. Lo visita accuratamente e spiega ogni passaggio del suo esame. In dieci minuti fa tutto e lo fa bene. Non si tratta di ernia, ma di qualcos'altro. Per capire meglio, il chirurgo prescrive una radiografia, un'ecografia e una successiva vista ortopedica, oltre, naturalmente, a una serie di esami clinici.
"Ci vorrà una vita", pensa a voce alta il malato. Invece, in meno di cinquanta minuti sia la lastra, sia l'ecografia, sia gli esami sono pronti. Ora tocca a un'altra dottoressa verificare il tutto e decidere il da farsi. Ma la donna è impegnata con uno degli altri 30 pazienti. Nel frattempo, il 70enne attende nel corridoio dove accade tutto. C'è un tizio che è stato messo su una lettiga e cerca di dormire. Non sta per nulla bene, ma non ha idea di cosa abbia. C'è un ragazzo in carrozzina reduce da un volo in moto. C'è un anziano arrivato da poco in ambulanza, anche lui parcheggiato su una carrozzina. Medici e infermieri si dannano per correre da una stanza all'altra. Lo fanno velocemente, ma ordinatamente, senza frenesia inutile. Danno l'idea di sapere cosa fanno e dove stanno andando. L'impressione è che il lavoro, per quanto in affanno, proceda con metodo.
Alle 23.10 consegnano all'uomo dolorante la documentazione elaborata fino a quel momento: lastre ed esiti degli esami, e lo mandano dall'ortopedico. Il problema è lì e toccherà a lui doverlo scovare.
La saletta d'attesa dell'ortopedia, adiacente a quella generale, è già occupata da altri tre utenti, che, ovviamente, attendono. Dopo cinque ore di permanenza al Pronto Soccorso, e i nostri compagni di stanza sono tutti in condizioni simili alle nostre, la stanchezza e il nervosismo cominciano ad affiorare. Esce una ragazza con un braccio ingessato, poi tocca a una donna che ha ricevuto il classico colpo di frusta, poi a un tipo che ha un ginocchio che si muove come quello di un burattino tanto è lasso. Ma gli ortopedici sono gente rapida, si sa. A mezzanotte meno cinque, tocca a noi. La visita è accurata e dura una ventina di minuti. Al termine il verdetto e chiaro e deciso: fase acuta di artrosi bilaterale. Due pastiglie per una settimana e si tornerà come nuovi.
Ora resta soltanto l'ultimo passaggio, di nuovo davanti al chirurgo che per primo aveva visitato il paziente. Sarà lei a formalizzare il certificato di dimissione dal pronto soccorso. La luce si intravede in fondo al tunnel. Ed è la mazzata finale, perché il tunnel è ancora lungo.
L'ultimo passo prima del traguardo finale dura ancora un'ora e un quarto.
Nel frattempo arriva un ragazzo con un paio di occhiali da sole a proteggere due occhi gonfissimi e rossi e lacrimanti. È accompagnato dalla fidanzata che lo guida come si fa con un cieco. Nei suoi occhi è finita della polvere da materiale edile, non ci vede più e ha un bruciore fortissimo, dice allo sportello. L'infermiera compila la scheda e gli consiglia di mettersi comodo, "perché l'attesa durerà almeno un paio d'ore".
"Come un paio d'ore? Ma io divento pazzo dal male, e non ci vedo più!".
"Lo dica a chi sta aspettando da ben prima di lei", risponde la ragazza al di là del vetro.
Al povero ragazzo non resta che andarsene. Dove, poi, non si sa.
Verso l'una e trentacinque tocca ancora a noi. Si torna dal chirurgo, che, nel frattempo, si è occupato dei casi del pronto soccorso e del suo reparto. Viene ripetuta velocemente la vista iniziale.
La donna ci aveva visto bene: l'ernia non c'entrava e il rapporto del traumatologo è chiaro.
Bene, ora non resta che compilare prescrizioni e rapporti. Il chirurgo si sfila i guanti di lattice e si accomoda alla scrivania, dove deve lottare con un programma informatico che usa quasi mai e compilare una serie di schede. Non ci sono impiegate o assistenti che possano svolgere più velocemente il tutto. Il servizio del chirurgo è "all-inclusive", dalla palpazione addominale al francobollo!
Ci sorge il dubbio che buona parte dei ritardi sia dovuta a questa elefantiaca procedura medico-burocartica.
Alle 2 meno cinque, ormai legati da un'amicizia simile a quella tra commilitoni, con medici e infermieri ci si dà la buona notte.
Finalmente si esce, sfiniti, guardando compassionevoli chi resta.
Ci si aspetta di vedere il ragazzo ferito alla gamba armato di ago e filo intento nel ricucirsi da solo come fosse Rambo, ci dicono che se ne è andato mezz'ora prima con quattro punti nuovi di zecca.
La sala d'attesa si è un po' svuotata, ma lista sul display luminoso è sempre troppo lunga.
E la sua avanzata troppo lenta.
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