Per il Pd il rischio
“sora Camilla”

Il Pd sconfitto, bastonato e derenzizzato sembra diventato la proverbiale “sora Camilla”: tutti lo vogliono ma chissà se qualcuno se lo piglierà. Maurizio Martina, traghettatore o Caronte a seconda dei punti di vista, ha chiuso tutte le porte, anzi pure gli spifferi, all’ipotesi, caldeggiata da una parte assai minoritaria del partito, di una collaborazione a un qualsivoglia governo con i vincitori del 4 marzo, ignorando gli appelli di Di Maio, Salvini, Berlusconi, dell’Europa e addirittura del capo dello Stato, Sergio Mattarella, che ogni qual volta pronuncia la parola “responsabilità” fa balenare nel sottotesto quella “Pd”. Di certo, adesso, dalle parti del Nazareno hanno cose un po’ più importanti da fare che elucubrare su stampelle governative. Dalle urne infatti non è uscito solo un partito sconfitto ma anche una forza politica in profonda crisi di identità oltre che di nervi.

Martina lo ha fatto capire ieri in direzione: prima del congresso occorre un progetto, cioè qualcosa su cui si avvii un confronto dentro ma anche fuori dal partito. Argomento: cosa deve essere il Pd in uno scenario politico che non potrebbe essere più fluido e che rischia di scomodare ancora gli italiani tra qualche mese per richiamarli al voto perché “abbiamo scherzato e non c’è modo di fare uno straccio di governo”. Quale che dovesse essere la risposta degli elettori non è dato sapere. Ma certo non è prevedibile che un partito massacrato dalle urne ma anche dalle lotte intestine, enfatizzate ad arte dai dirigenti in dissenso rispetto a una linea condivisa da maggioranza interne bulgare possa risorgere in così breve tempo. Non a caso Martina ha detto che guiderà le truppe solo nell’unità.

Chiaro che il Pd è finito in un cul de sac e riuscire a venirne fuori sembra un’impresa titanica. La scelta dell’opposizione senza se e senza ma da un eventuale “governo dei vincitori” con l’obiettivo di indebolirlo e far emergere le tante contraddizioni insite sia nella coalizione di centrodestra sia nei pur irreggimentati Cinque Stelle (vedere la spaccatura sulle Olimpiadi invernali bis a Torino) potrebbe giovare al partito che fu di Renzi. Che però, al di là dei numeri, mantiene una credibilità internazionale che servirebbe a tranquillizzare l’Europa un po’ sgomenta di fronte alla mareggiata populista uscita dalle urne italiane. E quindi finisce per diventare il perno di qualunque maggioranza possibile: da quella tra lo stesso Pd, i Pentastellati e quello scampolo di sinistra di Liberi e Uguali, ma anche di un improbabile rassemblement che veda i Dem uniti al centrodestra e altri raccolti qua e là tra i parlamentari in libera uscita, al governo che avrebbe in testa Mattarella con tutti dentro, allettati da punti programmatici di bandiera come il federalismo e una nuova legge elettorale con il doppio turno. Ma le ultime prese di posizione di Salvini sembrano chiudere queste ultime prospettive.

Il dilemma del Pd resterà tale fino a quando il partito non si sarà dato una nuova leadership. E molto dipenderà se sarà in continuità o meno con quella di un Renzi che, nonostante le dimissioni, intende restare una sorta di spettro che si aggira tra i Democratici, magari in attesa di portarsene via una buona fetta per “macronizzarsi” e ampliare l’offerta politica trasversale. Ma il Pd deve cominciare a ragionare su cosa vuol fare da grande e sul perché nonostante la sua paradossale affidabilità non riesca più a interpretare i bisogni della società e abbia esaurito l’afflato riformista attraverso il lento logorio della leadership renziana. Il Pd insomma deve dirsi e comunicarci cosa vuole essere e cosa dovrebbe essere. E questo percorso può anche prescindere dalla scelta tattica di collocarsi all’opposizione o accettare quegli inviti alla responsabilità che arrivano da molte parti. Perché la sora Camilla, alla fine, tutti la vogliono e nessuno la piglia.

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