Scala le montagne
con la vista che non funziona

Luigi Rovetta non abbandona la sua passione anche se ha una malattia degenerativa della vista

PONTELAMBRO Questa è la storia di un uomo che ama andare su e giù per le montagne, scarpinando per sentieri talvolta impervi. Ha "messo assieme" le cime del Cornizzolo, dei Corni di Canzo, Conca di Crezzo, Ghisallo, poi il San Primo, il Palanzone, la Bocchetta di Lemna e il Bolettone, con un percorso di 68 chilometri, 6600 metri di dislivello, in 16 ore. Raccontata così l’impresa sarebbe cosa già di tutto rispetto: quasi da "camminatori del cielo". Invece è molto di più. Luigi Rovetta, classe 1947, di Pontelambro, è stato un buon alpinista, rocciatore coraggioso. Da qualche decennio soffre di una grave limitazione della vista. I suoi occhi, che un destino beffardo ha voluto molto belli, color azzurro cielo e dallo sguardo buono, sono mortificati  da un male che tutti gli oculisti ostinatamente interpellati, hanno definito inguaribile. Anzi, con una serenità che colpisce, Rovetta informa che il male, purtroppo,  è in progressione.
«La mia è una menomazione pesante - racconta con dolcezza estrema Rovetta -, retinite pigmentosa bilaterale che limita notevolmente la retina. L’angolo visivo dei miei occhi è di dieci gradi, contro i pressappoco 180 dei soggetti normali. Ecco quindi che riesco a camminare solo nelle ore di luce. Le variazioni repentine di chiaro e scuro mi impediscono di vedere. Entrare nel bosco è un problema serio. Ma io cammino e cammino. Cercando la luce e le montagne che sono la mia vita. Penso di essere nato per la montagna». Ma lui non molla. <Ero ancora un ragazzo e lavoravo alla cartiera di Pontelambro assieme a Graziano Bianchi, che già aveva compiuto grandi imprese in montagna e ho cominciato ad andare con lui. Poco prima di sposarmi, l’oculista alla quale mi ero rivolto perché da qualche tempo soffrivo di disturbi, mi disse chiaramente tutto, che la mia è malattia ereditaria, che sarebbe andata peggiorando. Mi consigliò di non avere bambini. Mia moglie volle sposarmi ugualmente ed io le sono sempre stato molto riconoscente. Purtroppo è morta qualche anno fa». «Sfrutto i mesi con tanta luce. Una volta sono partito da Barcone in Valsassina, sono andato in "mountain bike" (mi serve più che altro per il carico) a Biandino, a Santa Rita, in vetta al Pizzo dei Tre Signori, sono sceso in Biandino, poi in bici fino a Balisio, sono salito al Pialeral e al Grignone. Alle 18,30 era in vetta. Volevo scendere, ma erano le 18,30. Avevo solo tre ore di luce. Poche per me. Il custode della Brioschi mi ha detto: "Ma resta qui con me". E così i miei occhi mi hanno concesso di ammirare il grande spettacolo del tramonto e dell’alba che dalla Brioschi sono una meraviglia».
Emilio Magni

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