Smartphone a scuola
Ma digitale non è sapere

Che fare dello smartphone a scuola? Far finta che non esista e che sia intuito dai ragazzi come uno strumento indispensabile e quindi proibirne l’uso o invece prendere atto di una situazione sociale e di modalità di comunicazione completamente mutata e trovare possibilità di mediazione che possano far sì che anche gli strumenti digitali possano diventare possibilità di intervento, non solo didattico, ma soprattutto educativo?

Il ministro della Pubblica Istruzione giustamente ha preso atto del problema e indicato dieci punti su cui riflettere: chiamarlo decalogo, come viene proposto, sembra decisamente eccessivo, meglio definire il documento come “linee-guida” per un uso appropriato e corretto del digitale a scuola.

Il documento indica infatti un dato di fatto dal quale oggi è impossibile prescindere, ovvero che “proibire l’uso dei dispositivi a scuola” non è una soluzione, ma un modo per non riflettere, non tanto su un problema, ma su una realtà in cui tutti siamo immersi e che i ragazzi sentono ancora di più essendo “nativi digitali” e considerando, in molti casi, la realtà digitale, non solo uno strumento, ma l’intero mondo, una sorta di ambito parallelo, se non sostitutivo della realtà, con tutte le problematiche che questo può comportare. In queste “linee” di comportamento va dato atto alla libertà d’insegnamento che il ministro sottolinea in vari punti, lasciando alle scuole la possibilità di regolamentare l’uso del telefonino, secondo i criteri adottati nell’ambito scolastico e sottolineando che “il digitale nella didattica è una scelta”, non un obbligo.

Questo è importante, perché il rischio che si è corso in questo ultimo decennio è stato quello di abbandonare strumenti la cui efficacia didattica è stata provata e comprovata da decenni di esperienza, per buttarsi a capofitto, a volte senza rete di protezione, nella rivoluzione digitale a tutti i costi, quando ancora non è chiaro quanto alcune abilità fondamentali possono avvantaggiarsi con il solo uso della didattica digitale, al punto che abbandonare gli strumenti tradizionali equivale a creare dei vuoti di conoscenza e di esperienza.

Non è un caso che i sondaggi abbiano messo in rilievo una carenza nell’uso dell’ortografia e della grammatica in ambito universitario, conseguenza di una preparazione insufficiente nei corsi di studi precedenti.

Non sarebbe corretto addebitare la carenza all’informatizzazione della scrittura: è certo però che è necessario oggi porsi anche questo interrogativo e indagare se il continuo ricorso agli strumenti digitali, per questo ambito, non interferisca sulle abilità linguistiche dei ragazzi.

Ad esempio spiegando e operando attivamente con alunni della scuola primaria, per favorire l’uso del dizionario e la ricerca del significato delle parole, spesso sento dire dai ragazzi che il metodo più veloce è quello di usare un motore di ricerca.

È una risposta ovvia, che però esclude l’intervento didattico che porta alla scoperta del metodo per poter usare un dizionario, che richiede capacità veloci di conoscenza dell’ordine alfabetico, di discernimento tra i significati e molte altre abilità che non possono essere sostituite dal semplice uso del tasto “cerca” sullo schermo.

Saper usare adeguatamente il dizionario, porta ad un metodo applicabile alla consultazione di un indice dei nomi, in un volume di saggistica, quando sarà necessario: se questo metodo non si è appreso, è chiaro che la carenza peserà sulla preparazione.

Giustamente tra i punti sottolineati c’è quello che “i dispositivi digitali devono essere un mezzo, non un fine” e che spetta all’azione didattica dell’insegnante educare ad “un uso competente e responsabile dei dispositivi”.

È chiaro il ministro su questo aspetto, sostenendo che “il digitale nella didattica è una scelta”, non un obbligo. Ciò indica che lo si ritiene uno strumento di cui è necessario valutare l’uso a seconda del contesto e in virtù di quanto può dare a livello d’innovazione. Così, giustamente, viene meno il concetto di “assolutizzazione” del digitale come innovazione nella scuola, sostituito da un più ragionevole strumento che va affiancato a quelli già in uso e sperimentati con ottimi risultati dalla scuola italiana.

Già in queste affermazioni gli insegnanti sono chiamati ad attivare uno “spirito critico”, quello stesso che secondo il ministro deve essere funzionale nell’attività con gli alunni. Oggi questo è il bisogno fondamentale: insegnare che ciò che troviamo negli ambienti digitali non è “la verità”, ma una fonte d’informazione che va verificata attraverso il confronto con più “versioni” della stessa, che diversa è la qualità dei siti che offrono informazioni, offrendo anche indicazioni su quelli più attendibili, sia per storia che per riconoscimento culturale attribuito negli anni e per la qualità della ricerca.

“Digitale” non è sinonimo di “innovazione”: lo diventa nel momento in cui attiva una possibilità di intervento educativo trasversale che è appunto la capacità di discernere l’opportunità migliore. E in un momento in cui le “fake news” impazzano, diventa un dovere per la scuola, insegnare a distinguere tra “il sapere originale” e quello “taroccato”, creduto vero.

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