Arriva “The Last Ship”
Sting in acque più sicure

L’ex Police dimostra di aver superato la brutta crisi e torna a sonorità care come in “The Soul Cage”. Abbandonata l’elettronica, tornano le ispirazioni

Dieci anni e diversi progetti collaterali. Alcuni riusciti, altri decisamente interessanti, alcuni da dimenticare. Tanto c’è voluto perché Sting tornasse a comporre e incidere un album d’inediti. E considerando che gli ultimi due, “Brand New Day” e “Sacred Love”, avevano rappresentato rispettivamente l’abbrivio e l’incontro con una sovrapproduzione capace di oscurarne la proverbiale immediatezza, l’attesa è durata ancor più.

Vissuto un inaridimento

È lo stesso Sting a non far mistero - parlando addirittura di musa, pur con la schiettezza che l’ha sempre contraddistinto - di aver in qualche modo vissuto un temporaneo inaridimento. E torna, nelle note di copertina di “The Last Ship”, a quel “The Soul Cages” che lui stesso per la prima volta definisce il meno amato dei suoi album ma al tempo stesso quello che gli ha garantito lo zoccolo duro di fan. Come a dire: chi è passato anche attraverso quello, i miei dischi li comprerà sempre e comunque. Più o meno.

Allora era stata l’improvvisa dipartita dei genitori, stavolta c’è voluto un ritorno (metaforico e forse in parte reale) alla natia Newcastle, per fare piazza pulita di qualche mostro interiore e tirare fuori una manciata di composizioni dedicate, alcune direttamente altre in maniera più velata, alla realtà portuale della cittadina del Nord dell’Inghilterra in cui è cresciuto.

L’epica dei viaggi per mare

C’è la speranza che contraddistingue le partenze, l’epica evocata dai viaggi per mare, il terrore delle storie che accompagnano sempre il varo di una nave, l’orgoglio dell’appartenenza a un corpo storico locale, il rispetto e al tempo stesso le rivendicazioni di chi a una nave dedica le proprie giornate nei confronti di chi come Isimbard Brunel in “Ballad Of The Great Eastern” ne è l’armatore.

La rabbia degli storici sindacati e il passaggio di consegne tra generazioni, come in “Dead Man’s Boots”. Un aspetto colpisce nella lettura dei testi, tutti piuttosto carichi di significato: Sting s’è prestato a un certo slang portuale, pur tanto diverso da quello americano, fatto di pronomi storpiati ed espressioni colorite. Che eppure mantiene un decoro tutto britannico, aiutato in questo dalla proverbiale pronuncia di Sting che meriterebbe un audiolibro nelle scuole.

La musica “cucita” alle parole

Il melange musicale è intimamente legato alla complessità dei testi, gli arrangiamenti prevedono quasi sempre un andamento orchestrale, i crescendo sono frequenti come si conviene a un racconto importante. Viene quasi da pensare che stavolta siano stati cuciti su misura alle parole.

Sarà interessante ascoltarne una versione live, dal momento che pur lontani da certo rock si presterebbero bene a una rilettura in quella chiave. Magari aiutati dal recente ritorno al basso e al quartetto degl’anni novanta con il “Back To The Bass Tour”. E da un ampliamento del ruolo di Dominic Miller rispetto a quello dei violini e delle cornamuse, difficilmente replicabili sul palco. In compenso è sparito il rutilante ricorso all’elettronica di “Sacred Love” e le melodie corrono placide anche laddove in contrasto con la parte vocale. C’è spazio per ballate romantiche come “Practical Arrangement”, sorrette da un tappeto costante di archi su cui il pianoforte interviene come una corretta punteggiatura e la voce sussurra su toni quasi baritonali.

Poi, via, c’è il divertissement di Sting: “The Night That The Pugilist Learned How To Dance”, un gioiello già dal titolo. Un ballabile a tempo medio, i classici pezzi che rendono Sting detestabile dai talebani del jazz, ove l’accompagnamento musicale è minimo e l’accenno di swing è fornito proprio dal fraseggio della voce in contrappunto a una carezzevole fisarmonica. Numerosi sono anche gl’ospiti che duettano con Sting alla voce, quasi tutti però relegati al secondo cd (bonus). “Becky Unthank” è una delle poche ammesse nella dozzina di brani che compongono il corpus principale dell’opera e in “So To Speak “offre la delicata versione umana delle northumbrian pipes della fida Kathryn Tickell, stavolta protagonista di quasi tutto l’album. Prima che una versione reprise della title-track chiuda l’album in un delicato ma imperioso crescendo.

Andrea Di Gennaro

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