«Essere canturino significa una cosa: non mollare mai»

Il saluto di Alessandro Palermo, addetto stampa dell’Acqua S. Bernardo: «Resto legato a Pancotto e ad alcuni giocatori. Jefferson e Mitchell, che tipi»

«Buona fortuna Alessandro!». Lo striscione degli Eagles durante Cantù-Brescia, dedicato ad Alessandro Palermo, ha fatto centro. Due lacrime hanno solcato il viso del responsabile della comunicazione della Pallacanestro Cantù, che lascia l’incarico dopo cinque stagioni. Dalla prossima settimana diventerà il responsabile dei social network della Lega Basket di serie A, a Bologna. Un bel tributo, che diventa anche l’occasione per un viaggio tra il detto e il non detto, delle cose belle e dei momenti duri vissuti alla Pallacanestro Cantù in 5 anni. Sempre con garbo, umanità e compostezza.

Partiamo dalla fine, dallo striscione degli Eagles. Te lo aspettavi?

Assolutamente no. È stato un momento straordinario, perché è un privilegio che spetta solo ai grandi giocatori o a pochi allenatori. Figuriamoci a un addetto stampa.

Significa che…?

Che lascerò un bel ricordo e che posso andare via da Cantù a testa alta, con la certezza di aver fatto tanto per questo club, seppur defilato. Con gli Eagles poi ho avuto un rapporto speciale: io, varesino, ho capito grazie a loro che “canturino” non significa essere nato a Cantù, o viverci. Ma significa non mollare mai.

In cosa consiste il nuovo incarico?

Sarò “Digital project manager” della Legabasket. Tradotto, dovrò portare progetti, idee e strategie di comunicazione social e terrò i rapporti con le tv. Sarò il referente dei 16 capi ufficio stampa dei club di A. Avrò un team da coordinare. Non l’ho cercato questo lavoro, mi hanno voluto. E io ho tentennato, perché a Cantù sono legatissimo. Ma se ti chiama e ti riceve il presidente Gandini in persona, significa che in me hanno creduto tanto.

A Cantù, invece, come era iniziata?

Un po’ per caso. Luca Rossini stava andando in Sardegna a lavorare, gli ho fatto l’“in bocca al lupo” e mi sono candidato. In un momento in cui scappavano tutti da Cantù, fui preso. Irina Gerasimenko fu colpita dalle mie proposte.

In cinque anni, tre presidenti. Facciamo una “classifica”?

Irina mi ha stimato sempre tanto, così Dmitri Gerasimenko: di loro non potrò mai parlare male. Marson ha creduto tanto in me, forse nessuno come lui mi ha fatto sentire importante. Allievi è un concentrato di saggezza, classe, compostezza: un’icona che sento vicino, come un familiare.

Parliamo allora di allenatori…

Quello a cui sono rimasto più legato è Cesare Pancotto, un galantuomo d’altri tempi con cui mi sento ancora. Quasi a parimerito, dico Pashutin. Brienza lo vedo più come un amico, che come un allenatore e mi ha già invitato a Pistoia. Sodini? Sono felice di aver “normalizzato” i rapporti con lui la scorsa stagione, dopo un primo anno complicato. Voglio citare anche Sacchetti e Bucchi: pochi nel mio ruolo hanno potuto lavorare con due totem come loro, anche se per poco.

E invece con i giocatori? Loro la sede la frequentano poco…

Il compianto Pierfrancesco Betti mi ha sempre detto di non dar loro troppa confidenza e credo di essere stato professionale. Ma posso ho avuto un rapporto più profondo con Bucarelli e Stefanelli, Cusin, Pecchia, Simioni e Cournooh.

I giorni più difficili a Cantù?

Quelli che anticiparono lo scoppio della crisi. La Gazzetta dello Sport anticipò che eravamo sull’orlo del fallimento. In una sala riunioni piena scrivemmo una lettera in cui tutti dicevamo cosa ne sarebbe stato di Cantù. Giocammo contro Pesaro di lunedì: salutai tutta la stampa presente, pensando che sarebbe stata l’ultima partita della Pallacanestro Cantù in serie A.

Come avete vissuto quei giorni?

C’era incertezza su tutto. Ma è la stagione che più porto nel cuore, la 2018/19. Eravamo uniti a livelli clamorosi, ci venne in mente l’hashtag #uniti. Davamo tutto, con enormi rinunce, solo per il bene del club, senza certezze.

Che insegnamenti nei hai tratto?

Che quando tocchi il fondo, risalire è difficile. Ma poi, tutto è più facile. Credo che i rapporti umani siano stati fondamentali nella rinascita di Cantù. Specialmente in una piazza così, prestigiosa ma pur sempre piccola: si vive ogni sfaccettatura, e si creano incredibili reti di contatti.

Qualche simpatico retroscena?

Con Jefferson e Mitchell ci si divertiva. Coprirli era un’impresa, qualche balla ai giornalisti l’abbiamo raccontata, ma anche questo fa parte del ruolo: di fatto, si allenavano solo il giorno prima della partita. Un altro bell’episodio con Tony Cappellari: mi obbligò a dire che al palazzetto c’erano 2.500 spettatori, in realtà ce n’erano la metà della metà. Il battibecco con i giornalisti fu inevitabile.

Altri aneddoti succosi?

Coppa Italia contro Milano, senza Culpepper e Crosariol: una partita già scritta. Ma uscendo dall’ascensore con Gorini, il nostro fotografo, ci siamo detti “Vinciamo”. Vincemmo benissimo, ma avevo la febbre e non me lo sono goduta.

Da addetto stampa, sei stato al centro anche di tante campagne benefiche. Cosa ti hanno lasciato?

Mi ha sempre fatto piacere essere considerato in società come una persona sensibile. Ci sono state esperienze belle e toccanti con i bambini in ospedale.

E il tuo quintetto ideale di questi cinque anni?

Gaines, Chappell, Mitchell per il talento, Udanoh per la tecnica, Jefferson. Sesto uomo Thomas. Allenatore Pancotto.

Andrai a lavorare in Lega, occupandoti di social network. Ma che aria tira nella comunicazione?

Mi dicono che sono un vecchio, perché prendo appunti sul block notes: il profumo della carta e l’acquisto in edicola sono imbattibili. Ma ora è innegabile che l’85% della comunicazione sia indirizzata sul digitale. Con immediatezza e semplicità, la sete di sapere del pubblico la soddisfi.

Chiudiamo con i saluti?

Ringrazio tutte le persone che ho conosciuto e che hanno lavorato al mio fianco. Ma ne cito due e gli altri capiranno: Diego Fumagalli e Walter Gorini, negli ultimi cinque anni ho visto più loro che la mia fidanzata. L. Spo.

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