Bucchi: «Cantù mi dà la forza
Qui c’è gente che ama la squadra»

Si confessa il tecnico bolognese dell’Acqua S. Bernardo

Cosa chiedere di più a uno nato a Basket City (sponda Virtus Bologna) e che ha allenato, tra le altre, a Rimini, Treviso, Milano, Napoli, Brindisi, Roma e Caserta? «Venire a Cantù». Detto e fatto. Eccolo qui, Piero Bucchi, chiamato a traghettare la S. Bernardo alla salvezza dopo la stagione e mezza targata Cesare Pancotto.

Con le s e le z sorde e sonore di chi è cresciuto all’ombra delle due torri e San Petronio, tra una salita a San Luca e una pizza da Altero, come cantava Lucio Dalla. Lo Stadio (a proposito di s con la maiuscola), il Trotto e il Resto del Carlino, sempre per citare il poeta e le abitudini dei bolognesi. Da una cattedrale del basket, insomma, a un’altra.

Coach, completato l’atterraggio sul pianeta Cantù?

Direi di sì, anche perché da parte mia c’è sempre stata la consapevolezza di arrivare in una piazza storica. Da qui il senso di responsabilità al momento della scelta.

Mai avuto dubbi?

Mai. Non ci ho pensato due volte, è stata una scelta di pancia. Conoscevo la situazione e quello che mi aspettava. Non era, non sarebbe stato e non è semplice, ma ho accettato la sfida con grande entusiasmo. Anche perché...

Anche perché?

Per questa è una piazza che stimola, che dà la spinta e la voglia di mettersi in gioco. Come ho fatto io.

Scelta di pancia, ma consapevole. Cosa l’ha spinta qui?

Daniele Della Fiori. Le sue parole sono state importanti. Mi ha spiegato tutto al meglio e io ho sentito dentro un’emozione. Un grande stimolo. E ancora adesso ho voglia di cavalcare l’entusiasmo che mi ha portato a Cantù.

Arriva, ironia della sorte, in una piazza storica proprio nel momento in cui non c’è la... piazza, vista l’assenza del pubblico.

Tutte le volte che ho giocato da avversario ho avuto modo di provare sulla pelle l’effetto che fa questa tifoseria. Al Pianella in particolare, dove è sempre stata una marcia in più per la squadra. Caldi e coinvolti, l’apporto dei tifosi è evidente. E altrettanto evidente è quanto manchino a me, all’ambiente e alla squadra. Mi dispiace davvero un sacco.

La città, invece? Tra coprifuoco e locali chiusi, forse, anche qui ci sono ora meno possibilità.

Invece no. Capita sempre che più di un tifoso mi riconosca, mi fermi e mi dia una parola d’incoraggiamento. Anche da questo si capisce quanto Cantù sia città di basket. Non vorrei dire tutti, ma in tanti sì ogni volta hanno modo di stringersi alla squadra. Non come a Roma.

Cioè?

La differenza è evidente, al di là del fatto che sia una metropoli contro una cittadina. Roma è più asettica e più votata al calcio. Nonostante il grande passato, difficile che uno riconosca l’allenatore o un giocatore della squadra di pallacanestro. A Cantù, indubbiamente, si sente la passione.

Meglio o peggio, per una squadra giovane come la sua, giocare senza la pressione del pubblico?

In casa non c’è storia. I tifosi aiutano, eccome, sempre. Ma anche fuori, a dir la verità. Noi siamo qui per regalare emozioni positive e il contatto con la nostra gente manca. Per i ragazzi sarebbe certo un fattore importante, un po’ meno forse per i più esperti, ma lo stesso decisivo. Il bello di ognuno che è dentro quel campo è regalare un sorriso a chi viene a vederti.

Le sono servite le tre settimane di pausa?

Da una lato sì, dall’altro invece c’è una grandissima voglia di giocare. Con via due giocatori (Procida e Bayehe, ndr) con le Nazionali e con Leunen fermo per un problema fortunatamente risolto, abbiamo dovuto fare qualche salto mortale. Ho visto Procida e Bayehe un po’ stanchi e sballottati, ma a quell’età basta una bella dormita per riprendersi al meglio.

Ne ha approfittato per mettere cose nuove?

Quello di sicuro. Soprattutto a livello difensivo, ma abbiamo anche lavorato per allargare i giochi d’attacco.

Difensori si nasce o si diventa?

Ci si può lavorare, quello è certo. Ma l’indole, l’istinto al sacrificio, la voglia di aggressività sono caratteristiche innate. E poi conta molto l’intelligenza cestistica, che aiuta a capire ciò che accade in campo.

E la sua è una squadra più di difensori, punto debole fin qui, o di attaccanti?

Diciamo che in qualcuno si è risvegliata la voglia e qualcuno continua a rimanere più propenso ad attaccare. Alla fine siamo un buon mix.

Mai stato, nel passato, vicino alla panchina di Cantù?

Sinceramente non mi sono mai arrivate voci, anche se qualcuno al mio arrivo mi ha fatto notare che forse qualcosa si era già mosso.

Probabilmente negli anni di Polti per un momento si guardò alla nouvelle vague bolognese, con lei e Giordano Consolini nel mirino...

Ah, ecco. Ma in tempi più recenti posso confermare che contatti diretti con me non ce ne sono mai stati.

E a proposito di quella generazione Virtus, coach Messina anni fa ebbe a rispondere: «L’Ettore Messina degli Under 30? Non c’è dubbio, Piero Bucchi». Lei è un messiniano della prima ora?

Otto anni a Bologna insieme e un’amicizia di lunga data. Ultimamente, vuoi per i suoi impegni internazionali, non ci sentiamo tantissimo, ma ci conosciamo da tempo e per me quegli anni sono stati fondamentali.

A proposito di Bologna, se n’è andato da poco il bolognese di Cantù per antonomasia: Gianni Corsolini.

Grande personaggio, persona di valore e alla quale tutti hanno voluto bene. Ho appreso la notizia con dispiacere immenso e mi stringo alla famiglia. Abbiamo perso un uomo di spessore e di intelligenza sopraffina.

E anche in questo caso Cantù ha dimostrato quanto bene voglia ai suoi eroi...

Non c’è bisogno di aggiungere nulla a quello che abbiamo letto e visto.

Cantù vista da fuori quanto è affidabile adesso dopo le turbolenze della passata gestione?

Molto. Direi che è stato fatto un eccellente lavoro per la ricostruzione di una credibilità all’Italia e all’estero per giocatori e allenatori. Non per dire male, ma qualcosa di non lineare prima c’era, se ne parlava e si sentiva. Adesso è tutta un’altra cosa, e sono state ritrovate le persone giuste per riportare la piazza al ruolo che storia e risultati le impongono. E il mio non è un discorso solo di bilanci, ma anche di uomini. Dal presidente Allievi, a Mauri, a Della Fiori e a tutti i dirigenti ho visto massima serietà e grande voglia.

La ferita di Roma si rimarginerà mai?

Mi è dispiaciuto moltissimo, per una piazza importante come è quella. Nonostante non sia accaduto dalla sera alla mattina, sono stati mesi durissimi e nei quali ogni cosa era complicata. Abbiamo aspettato e sperato, invece... Una ferita che non si chiuderà mai, dal lato professionale e umano.

Non le chiederemo per ovvi motivi se è favorevole al blocco delle retrocessioni, ma se sposa la linea della Legabasket di campionato a franchigie o meglio il pathos di promozioni e retrocessioni?

Le due cose possono tranquillamente coincidere. L’importante è che chi sale abbia credenziali e garanzie per mantenere il livello della serie A. Un giusto compromesso, nel quale dimostrare di avere i numeri a posto ed evitando esperienze tipo quella di Roma, appunto.

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